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At the Terrace

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VOTO: 7

Metti una sera in terrazza

Prendi una bella casa signorile. Prendi un’elegante e spaziosa terrazza. Prendi anche una coppia dell’alta borghesia. Aggiungi una serie di invitati, anch’essi altoborghesi e, non per ultimo, il figlio della suddetta coppia. Nessuno di loro si conosce a fondo, i rapporti sono eccessivamente formali. Eppure, lo spazio è piccolo, il tasso alcolico tende ad aumentare e le buone convenzioni richiedono almeno qualche tentativo di socializzazione forzata. Cosa ne verrà fuori? Senza alcun dubbio, con premesse del genere potrebbe nascere qualsiasi cosa. Nel nostro caso, però, particolarmente interessante è ciò a cui ha dato vita Yamauchi Kenji: una frizzante e dissacrante commedia sulle maschere che ognuno di noi è solito indossare in società. Stiamo parlando di At the Terrace (il titolo potrebbe anche far pensare a La terrazza, del nostro compianto Ettore Scola – e per certi versi potrebbe addirittura ricordarlo – ma questa è un’altra storia), presentato ad Udine, alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival.
Se pensiamo ai numerosi lungometraggi del genere ad impostazione teatrale girati negli ultimi anni – primo fra tutti, il molto ben riuscito Carnage di Roman Polanski, così come molti altri analoghi prodotti la cui creazione è forse stata incentivata proprio in seguito al successo di Carnage stesso – ciò che ci appare è uno sciame di pellicole tutte somiglianti tra di loro. Storie di famiglie perbene, che, però, in seguito ad un qualsiasi fattore scatenante apparentemente di poca importanza, tirano fuori tutta la rabbia ed i rancori non appena sono costretti a passare del tempo a contatto ravvicinato. Basti pensare – giusto per non andare troppo indietro nel tempo – al recente The Party, diretto da Sally Potter e presentato in concorso alla diciassettesima edizione della Berlinale, così come all’urticante The Dinner, di Oren Moverman, presente anch’esso in concorso alla medesima edizione del Festival di Berlino. Il rischio di tali lungometraggi è, come prevedibile, quello, appunto di diventare ognuno la (bella o brutta) copia dell’altro, diventando, spesso e volentieri, addirittura pretenziosi – come nel caso di questo ultimi lavori della Potter e di Moverman, appunto – e limitandosi a strappare allo spettatore solo qualche sorriso qua e là. Possibile epilogo questo, ma, fortunatamente, non sempre ciò si verifica. Ed eccoci arrivati, finalmente, a questo ultimo lungometraggio di Yamauchi Kenji. In che modo il cineasta giapponese è riuscito a “fare la differenza”? Innanzitutto, qui le dinamiche sono diverse. Non vi sono rapporti preesistenti, non vi sono antichi rancori. Quello che qui viene preso di mira è, appunto, l’abitudine a fingere, in società, di essere in un determinato modo. Salvo poi far cadere la maschera quando vengono meno i cosiddetti freni inibitori, annullati, nel nostro caso, dall’alcool. Ed ecco, dopo i primi, esilaranti momenti in cui l’imbarazzo di dover intrattenere una conversazione con sconosciuti fa da padrone, arrivare – una volta scaldati i motori – il famoso fattore scatenante che stravolgerà gli equilibri. Nel nostro caso si tratta di un qualcosa di vecchio come il mondo: la spietata ed efferata competitività tra donne. Chi sarà la più bella della festa? La procace padrona di casa o la timida e dolce mogliettina di uno degli invitati? Al pubblico l’ardua sentenza. Fatto sta che, una volta scoppiata la lite tra le due, ne accadranno davvero di tutti i colori. Protagonisti assoluti: gli sguardi e le espressioni – in primo piano o sapientemente dislocati ai lati dello schermo – di ogni singolo personaggio, degnamente rappresentato sul grande schermo da un cast di tutto rispetto.
Decisamente interessante, dunque, questo ultimo lavoro di Yamauchi Kenji. Non facile, sia per quanto riguarda la scelta dei tempi comici giusti, sia per quanto riguarda l’ancor più arduo obiettivo di acquisire – in un mare di prodotti che tendono tutti a somigliarsi tra di loro – una propria, marcata identità. Eppure il cineasta giapponese è riuscito in entrambi gli intenti. Se non altro ha dato vita ad un lungometraggio che, nell’ambito di una partenza piuttosto tiepidina, è in qualche modo riuscito a fare la differenza in questi primi giorni di Far East Film Festival.

Marina Pavido

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