Un angelo venuto dall’Africa
Se nel (non troppo) lontano 2010 il lungometraggio Venere Nera (per la regia di Abdellatif Kechiche) aveva colpito nel profondo sia pubblico che critica mettendo in scena la crudele storia di Saartjie Baartman, ragazza ottentotta che nel diciannovesimo secolo veniva esibita come attrazione all’interno dei salotti bene europei, ecco arrivare direttamente dall’Austria (frutto di una coproduzione con il Lussemburgo) fino agli schermi della trentaseiesima edizione del Torino Film Festival – in concorso Torino 36 – il lungometraggio Angelo – terza regia per Markus Schleinzer, storico aiuto di Michael Haneke – dove viene messa in scena la vera storia di Angelo Soliman, arrivato dall’Africa in Europa all’inizio del diciottesimo secolo, adottato da una contessa del posto e usato come esperimento educativo, fino al punto da essere costretto a esibirsi per i nobili del luogo.
Una storia, questa, cruda quasi al pari del precedente lungometraggio di Kechiche, che viene raccontata per immagini in un raffinato lavoro dove, attraverso le vicende di un singolo, il regista ha voluto mettere in scena lo spinoso – e tristemente attuale – tema della diversità, approfittando dell’occasione per dare vita anche a una tanto lucida quanto impietosa analisi sociale e – più in generale – della stessa umanità, a prescindere dal secolo in cui ci si trova. Una critica, questa, a cui Schleinzer è spesso ricorso all’interno dei suoi precedenti lavori (impossibile non pensare, a tal proposito alla sua opera prima, Michael, in cui pure veniva messo in scena un nitido ritratto della società austriaca contemporanea).
E così, con un campo lungo – e rigorosamente in 4:3 – vediamo, in apertura del lungometraggio, l’arrivo del piccolo Angelo, il quale, ancora bambino, viene scelto fra tanti da una magnanima contessa (impersonata da Alba Rohrwacher), la quale lo farà battezzare e lo prenderà sotto la propria custodia. Interessante vedere, a tal proposito, come, malgrado le buone intenzioni, la stessa contessa sia, sotto sotto, spaventata dalla “diversità” del bimbo e sempre pronta a mettersi sulla difensiva, in particolare nel momento in cui, di notte – e come sovente capita ai bambini quando hanno un incubo – il piccolo si avvicina al suo letto in cerca di affetto e di protezione. Questo, però, è soltanto il primo capitolo e – malgrado sporadici episodi che lasciano prevedere brutti momenti – sta a rappresentare, di fatto, il periodo più felice per il giovane protagonista. Nei due restanti capitoli in cui il presente lavoro è diviso, infatti, assistiamo a un vero e proprio crescendo di crudeltà e cinismo, fino a un tanto inaspettato quanto assurdo climax finale.
Una storia annichilente, dunque, per una messa in scena particolarmente raffinata che, perfettamente in linea con gli ambienti rappresentati, vede principalmente luci soffuse (interessante come alcune immagini stiano a ricordare addirittura i dipinti di Caravaggio o – per quanto riguarda le scene oniriche – di Diego Velazquez), palazzi sì sfarzosi, ma, allo stesso tempo, privi di eccessivi elementi decorativi e con un arredamento del tutto essenziale e, non per ultimo, un ricercato commento musicale con brani al clavicembalo di Johann Sebastian Bach, Joseph Haydn, Alessandro e Domenico Scarlatti e Alessandro Costantini. Dal canto proprio, le figure tendono – soprattutto per quanto riguarda i totali – a restare statiche, rigide, quasi immobili, perfettamente in linea con le loro personalità e che trasmettono allo spettatore quel senso di impotenza e di disperazione che può provare un singolo individuo di fronte a una comunità già costituitasi, all’interno della quale – malgrado numerose ipocrisie e falsi buonismi – non c’è posto per chi è considerato “diverso”.
Marina Pavido