Home Festival Torino 2018 Vultures

Vultures

158
0
VOTO: 5

Trasporto stupefacente

Erik rappresenta il volto ambizioso della moderna Islanda. Atli, un piccolo criminale appena uscito di prigione, è bloccato in una spirale discendente. Le profonde distanze tra i due fratelli svaniscono quando per risolvere i loro problemi economici si ritrovano a lavorare insieme per fare entrare clandestinamente in Islanda una partita di cocaina, nascosta dentro degli ovuli di plastica inghiottiti da Sofia, una giovane spacciatrice polacca. Ma la situazione si complica quando la ragazza inizia a star male, con la polizia già sulle loro tracce, tensioni e violenza esplodono.

Una sinossi quella al centro di Vultures di Börkur Sigþórsson, presentato in concorso alla 36esima edizione del Torino Film Festival, che da subito svela allo spettatore di turno tutte le carte a sua disposizione. Nell’opera prima del regista islandese troviamo una storia giocata sul contrasto tra fratelli che simboleggiano lo scontro tra il vecchio e il nuovo, ma anche una vicenda che indaga nel profondo gli istinti umani chiedendosi fin dove siamo disposti a spingerci per tutelare i nostri interessi. Temi e spunti di riflessione questi decisamente universali che chiamano in causa anche i legami biologici per poi riversarsi in un noir ruvido e gelido, che mostra il lato oscuro di una società – quella islandese, e per estensione nordeuropea – troppo spesso idealizzata. Questo per dire che c’è del marcio pure in Islanda.

Purtroppo però il suddetto tessuto narrativo e drammaturgico, nonostante il peso specifico del quale si è fatto carico e la tantissima carne messa sul fuoco, finisce nel limbo dell’ordinario a causa di una scrittura che per chiudere il cerchio e disegnare le traiettorie delle one-lines dei personaggi principali (tra l’altro ben interpretati dal trio formato da Anna Próchniak, Baltasar Breki Samper e Gísli Örn Garðarsson) deve passare per una serie considerevole di forzature. Quest’ultime sono il tallone d’Achille che innesca un effetto domino che provoca a sua volta una mancanza di tensione, un indebolimento della struttura e un livello di coinvolgimento, emotivo ed empatico, ridotto ai minimi termini. In generale si tratta di problematiche più o meno evidenti che si ripercuotono negativamente tanto sullo script quanto sulla messa in quadro, ma l’ostacolo più grande che il film non riesce proprio ad oltrepassare, ossia il fatto di apparire dall’inizio alla fine come un déjà-vu lungo poco più di 90 minuti. E non è un caso che la visione di Vultures faccia riaffiorare un’infinità di analogie con operazioni simili, ultime in ordine di tempo Hermanos di Pablo Gonzaléz o Blood di Nick Murphy.

Francesco Del Grosso

Articolo precedenteAngelo
Articolo successivoIl regno

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

tre × uno =