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All that I am

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VOTO: 7

Curare le ferite

Nonostante la complessità e la delicatezza dell’argomento, la Settima Arte e in particolare il cinema documentaristico si sono occupati in più di un’occasione del difficile tema degli abusi sui minori in ambito domestico. Un tema ostico, che per molti autori si è trasformata in materia incandescente da maneggiare, come ad esempio per Alexandros Avranas e il suo Miss Violence, senza alcun dubbio una tra le visioni più sconvolgenti e disturbanti degli ultimi anni. Qui la ferocia, la brutalità e la schifezza dell’abuso non vengono risparmiati allo spettatore, al contrario vengono mostrati senza esitazioni al fine di condannarli senza appello. C’è poi chi come Tone Grøttjord-Glenne, nota produttrice norvegese che per la sua nuova esperienza dietro la macchina da presa dal titolo All that I am, pur condividendo la mission e le intenzioni del collega greco, ha preferito percorrere un’altra strada.
Nel suo documentario, presentato nella sezione “Visti da Vicino” del 39° Bergamo Film Meeting, non mostra le violenze subite da Emilie dal suo patrigno dall’età di sei anni fino ai dodici anni, quando l’uomo è stato condannato e imprigionato, ma ce le fa rivivere con tutto il suo carico devastante attraverso i racconti nel presente della ragazza. Dopo cinque anni in affidamento, la diciottenne Emilie è tornata a casa della sua famiglia per ricostruire una relazione fratturata con sua madre e i fratellastri più piccoli. Nei due anni successivi con determinazione ha iniziato a guarire dal trauma che la perseguita, imparando a dire la sua verità ad alta voce e a muovere i primi passi verso il futuro. Ora deve raccogliere il coraggio di rivelare ai suoi fratellastri il motivo per cui il loro padre è stato imprigionato e perché è stata via per tutti questi anni.
Ed è questo percorso umano, fisico, affettivo e psicologico che la regista scandinava ha deciso di raccontare, seguendo la protagonista nel quotidiano, tra incontri con psicologi, avvocati, amici, familiari e consulenti del lavoro. All that I am si focalizza esclusivamente sulla vittima e sulle sue ferite, visibili e non, lasciando al margine il carnefice che però nei pensieri, nelle riflessioni e nelle confidenze di Emilie è onnipresente. Nel combattere paure, incubi, dubbi, sensi di colpa e attacchi di ansia, prova a riprendere in mano la propria vita, con la cinepresa che la segue in lungo in largo, accompagnandola per parte del tragitto.
Tone Grøttjord-Glenne non calca mai la mano quando si tratta di riaprire vecchie ferite, dimostrando un rispetto e un tatto rari al giorno d’oggi. Facile e ad effetto sarebbe stato sottolineare e cavalcare la linea della spettacolarizzazione del dolore, dalla quale l’autore riesce a tenersi bene alla larga. Per farlo trova sempre la giusta distanza, avvicinandosi e allontanandosi dal soggetto, seguendo l’onda emotiva di Emilie e monitorando con attenzione la temperatura di ogni singolo momento, anche quelli più dolorosi.

Francesco Del Grosso

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