Viaggio nel cuore della notte
Lungo e costellato di riconoscimenti, tra cui quello per la miglior regia al Cairo International Film Festival, è stato sin qui il percorso nel circuito festivaliero di Ghost Tropic, inaugurato in quel di Cannes 2019 nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs”. A due anni circa di distanza dall’anteprima alla kermesse francese, l’opera terza di Bas Devos è approdata – seppur virtualmente – sugli schermi nostrani con la selezione in concorso al 39° Bergamo Film Meeting. Opportunità, questa, che ci ha permesso di recuperare la pellicola del cineasta belga, già autore di pluridecorati cortometraggi e di un paio di lungometraggi (Violet e Hellhole) capaci di dividere la critica in entrambe le apparizione alla Berlinale.
Stavolta si discosta e di molto dal modus operandi dei film precedenti sia dal punto di vista della scrittura che da quello estetico, scegliendo un approccio narrativamente e drammaturgicamente meno stratificato, non frammentato e più lineare, reso attraverso una messa in quadro defilata, scarnificata ed essenziale. Un rigore formale e un lavoro di sottrazione nelle fase di scrittura che si palesano sin dall’incipit, un piano sequenza a camera fissa della durata di cinque minuti che in timelapse mostra un salotto che lentamente viene inghiottito dal buio della notte che filtra dalla finestra. Da quel momento inizia un dal tramonto all’alba che ci porta al seguito di Khadija, una donna delle pulizie di cinquantotto anni che dopo una lunga giornata di lavoro finisce con l’addormentarsi sull’ultima corsa della metropolitana. Quando si sveglia è al capolinea, dall’altra parte della città, e non ha scelta: deve ritornare a casa a piedi. Durante il tragitto, la donna si ritrova a chiedere e a dare aiuto alle varie persone che incontra sul suo cammino nella notte di Bruxelles.
La capitale belga, le sue strade, i suoi vicoli e le sue piazze, diventano la cornice di un’istantanea, di una fotografia di una sola notte fatta di luoghi popolati da esistenze che si incrociano, si sfiorano, anche solo per fugaci parentesi sufficienti a restituire la misura dei rapporti umani al giorno d’oggi. Rapporti dei quali la protagonista di Ghost Tropic si fa testimone e osservatrice, vagando in una metropoli addormentata che attende le prime luci dell’alba per tuffarsi nella frenesia dell’ennesimo giorno come tanti.
Il risultato è un ritratto femminile impresso su una superficie narrativa semplice. Una semplicità che Devos restituisce attraverso un plot minimalista, che si focalizza sulle azioni, le parole, i silenzi e le emozioni del personaggio principale e del “mondo” eterogeneo che lo circonda. Tutto si gioca dunque su di lei, una figura appartenente a una generazione di donne sottoesposte e sottorappresentate, alla quale l’autore ha voluto dare un volto e un nome. Di quelle che il regista stesso ha dichiarato di incontrare quotidianamente nei suoi rientri a casa notturni in metropolitana, ma alle quali nessuno sembra prestare attenzione perché ritenute anonime. Fine assolutamente nobile che però non garantisce al film abbastanza carburante drammaturgico per saziare l’appetito dello spettatore di turno. Lavorando costantemente in sottrazione, la timeline finisce infatti con il privare il fruitore di un racconto in grado di coinvolgerlo dall’inizio alla fine. Strada facendo non mancano le emozioni, seppur distillate, come nel caso del soccorso del senzatetto in fin di vita o del pedinamento dei ragazzi nel parco, ma non sono sufficienti a lasciare un’impronta forte nella memoria del pubblico.
Molto, al contrario, lo lascia la regia semi-documentaristica di Devos, che fa dell’alternanza nell’immobilità dei quadri fissi con la pulizia di un movimento fluido e dei tempi lunghi il segno distintivo. Come molto fa il lavoro davanti la macchina da presa di Saadia Bentaïeb, attrice di teatro di grande talento qui alla sua prima esperienza cinematografica, che nei panni Khadija offre un’intensa e partecipe performance. Il ché ci fa riflettere su quanto il cinema possa essere cieco quando si accorge così tardi della bravura di un’artista che da anni si esibisce in teatro. Motivo per cui va fatto un plauso al regista belga per aver dato questa opportunità alla Bentaïeb.
Francesco Del Grosso