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Powidoki – Il ritratto negato

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VOTO: 8.5

Un testamento di rara potenza concettuale e visiva

A rendere ancora più amaro un 2016 che di grandi del cinema, della musica e del teatro ne ha già decimati fin troppi, la notizia della morte di Wajda ha inferto l’ennesimo duro colpo al cuore dei cinefili, funestando l’attesa di una Festa del Cinema di Roma che, tra l’altro, avrebbe avuto proprio il Maestro polacco tra i suoi ospiti principali. Uomo di ferro. Uomo di marmo. Ci si aspettava forse che anche il suo corpo fosse di granito. E invece alla comunque ragguardevole età di 90 anni quel corpo si è dissolto, il marmo si è sbriciolato, lasciando però scoperta un’anima possente: il film proposto in questi giorni dal festival capitolino, Afterimage (per l’uscita italiana il titolo sarà Powidoki – Il ritratto negato), è difatti un autentico concentrato della poetica di Andrzej Wajda, ben rappresentata sia nella sobria eleganza della messa in scena che per la ripresa di alcune delle tematiche maggiormente vicine all’autore. E così si candida a esserne anche un possibile testamento spirituale.

La visione di Afterimage (Powidoki, in originale) ha generato in noi, su un piano molto intimo, personale, tanto un sospiro di sollievo che l’inevitabile groppo alla gola. Il sollievo è dato dal fatto che la monumentale filmografia del cineasta polacco, arenatasi di recente nel troppo agiografico Walesa – L’uomo della speranza, con questo suo ultimo lungometraggio recupera invece tutta la sua complessità, tutta quella indiscutibile profondità e veridicità nel denunciare l’orrore delle culture totalitarie del Novecento, ponendo poi in primo piano, per l’ennesima volta, quel dissidio insanabile che vede contrapporsi da un lato la deriva autoritaria di certi poteri e dall’altro la libertà d’espressione richiesta dall’individuo. Specie quando l’individuo in questione è un artista.
Da qui nasce anche il groppo alla gola cui accennavamo poc’anzi, ovvero l’esito particolarmente straziante della denuncia portata avanti nel film da un Wajda che ha saputo conferire parvenza di  grido soffocato, disperato, alla sofferta biografia di Władysław Strzemiński, nome importante delle avanguardie artistiche in Polonia un tempo vicino a istanze rivoluzionarie anche nella società, ma poi beffardamente e crudelmente stritolato dagli spietati ingranaggi dello stalinismo.

Nel suo prendere forma come biopic anomalo, di inusitato spessore esistenziale, Afterimage contestualizza nel dopoguerra e nell’affermarsi dei regimi socialisti in Europa Orientale la parabola discendente di un grande artista, mutilato nel corpo ma soprattutto nell’anima, al quale un potere ottuso nega progressivamente prima il diritto di esprimersi liberamente, poi un qualsiasi ruolo nella società, fino a minacciarne la sopravvivenza stessa. Vieppiù la grandezza dell’opera di Wajda non è soltanto in questo sofferente e sentito ritratto umano, ma nel saperlo associare a un discorso estremamente maturo sulla visione, sulla ricerca del proprio punto di vista sul mondo, che, partendo proprio dal ruolo avuto nel primo Novecento dalle Avanguardie, si spinge fino alla negazione violenta della loro libertà da parte di istituzioni sempre più burocratizzate e asservite ideologicamente. Strada facendo diventa sempre più difficile scindere il valore metaforico del racconto da una profonda compassione umana, in un lungometraggio che esalta di continuo la dignità ferita del protagonista, contrapponendola al tetro conformismo dei suoi persecutori. Un artista immenso come Wajda saprà però “vendicarlo”, ribadendo la sua personale ottica cinematografica, il suo diritto a riformulare i parametri della visione, anche attraverso sequenze splendidamente funeree come la lenta carrellata nella vetrina del negozio dove  Strzemiński, ridotto a un ultimo e per lui quasi umiliante lavoro, si accascia ormai malato tra i manichini della boutique.

Stefano Coccia

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