Questo pazzo, pazzo mondo
Il disagio mentale. Il difficile rapporto con gli altri. Le numerose problematiche famigliari. Abbraccialo per me – ultimo lungometraggio diretto dal veterano Vittorio Sindoni – tratta tutto ciò, raccontando la storia di Ciccio, ragazzo affetto da disabilità mentale e concentrandosi in particolare sul rapporto tra quest’ultimo e sua madre Caterina, la quale non ha mai voluto accettare la “diversità” del figlio. Ed è proprio il rapporto con la famiglia il tema centrale di questo ultimo lavoro di Sindoni, il quale, a sua volta, ha però tralasciato alcuni step importanti per quanto riguarda la buona riuscita del prodotto stesso. Ma andiamo per gradi.
Volendo fare un salto indietro – ma molto, molto indietro – negli anni, non possiamo non citare uno dei grandi capisaldi della storia del cinema (nonché uno dei maggiori capolavori espressionisti) che ha magistralmente trattato il tema della follia, ossia Il gabinetto del Dottor Caligari, diretto nel 1920 da Robert Wiene. Da allora, numerosi sono stati gli autori che si son lasciati sedurre dall’argomento, al punto da volerlo mettere in scena: da Miloš Forman (Qualcuno volò sul nido del cuculo) a Silvano Agosti (Matti da slegare), fino ad arrivare ai giorni nostri con l’italiano Si può fare, diretto da Giulio Manfredonia e con il pluripremiato Mommy, per la regia di Xavier Dolan. Ma ce ne sono moltissimi altri che qui non sono stati citati. Ognuno dei lungometraggi qui menzionati, comunque, tratta il disagio mentale in modo diverso: c’è chi ha raccontato le condizioni dei pazienti all’interno dei manicomi, chi ha focalizzato l’attenzione sul loro reinserimento nella società, chi – come Sindoni – ha voluto incentrare il proprio lavoro sul rapporto tra il malato e la sua famiglia e chi, infine, ha voluto dare al tutto un tono principalmente onirico, senza per forza volersi concentrare sull’aspetto clinico in sé. Cosa accomuna, però, tutti questi variegati prodotti? Senza dubbio, un grande lavoro di ricerca. E per ricerca non si intende per forza l’approfondimento clinico della malattia, ma anche uno studio approfondito di regia, oltre alla redazione di una sceneggiatura vincente. Ecco, per quanto riguarda il lungometraggio di Sindoni, pare non sia stato svolto alcun approfondimento sufficiente, al fine realizzare un prodotto quantomeno accettabile.
La scelta di non voler concentrare l’attenzione sulla malattia di Ciccio, concentrandosi più che altro sul rapporto tra lui e sua madre Caterina, presuppone, in questo caso, un minimo di approfondimento clinico prima della scrittura vera e propria. Ciò avrebbe dato delle basi più solide al racconto e avrebbe reso i personaggi decisamente più empatici. Ma il problema non è solo questo. Numerosi sono, infatti, i manierismi presenti in sceneggiatura (il tentato suicidio di Caterina, l’improvvisa morte di Pietro, padre di Ciccio), i quali contribuiscono a rendere il tutto eccessivamente prevedibile e macchinoso. A tutto ciò si aggiunge una poco convincente direzione degli attori (nonostante la presenza di un cast di tutto rispetto), i quali, a loro volta, sembrano pronunciare battute “staccate” rispetto al contesto, quasi come se ognuno parlasse per sé e non interloquisse con gli altri personaggi presenti in scena.
La sensazione che viene trasmessa dalla visione è, dunque, quella di trovarsi davanti ad un prodotto semplicistico, raffazzonato, addirittura realizzato in modo affrettato (soprattutto per quanto riguarda il finale stesso) e che non ha saputo sfruttare al massimo le sue numerose potenzialità. Peccato, perché l’idea di voler affrontare un tema di tale portata concentrandosi su un aspetto spesso trascurato è piuttosto interessante. Interessante, come anche complicata da realizzare. E in questi casi, si sa, basta una semplice disattenzione per fare perdere parecchi punti a tutto il lavoro.
Marina Pavido