L’Arte per evadere
Lo avevamo intercettato la prima volta in quel di Todi durante l’edizione inaugurale del Festival dei Diritti Umani, dove si aggiudicò due meritatissimi riconoscimenti (Menzione speciale della giuria studenti e Premio Aamod), ora lo ritroviamo con piacere, dopo un fortunato tour nel circuito festivaliero internazionale, tra i titoli della sezione Cinema & Realtà della 17esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce. E quale occasione migliore se non il passaggio sugli schermi della kermesse salentina per parlarvi finalmente di A tempo debito.
Nel documentario firmato da Christian Cinetto e prodotto da Marta Ridolfi per Jenga Film, ci troviamo catapultati al seguito di una piccola troupe nella Casa Circondariale di Padova. Siamo nell’ottobre del 2013 e l’intento e quello di tenere un corso di cortometraggi. Dopo un casting in piena regola, su 40 detenuti che si presentano, ne vengono scelti 15, di 7 nazionalità diverse, tutti in attesa di giudizio. Non si conosce la ragione della loro reclusione, ma guidati dalla fiducia dei loro sguardi e dall’istinto si procede attraverso lezioni di recitazione e di scrittura. Può un gruppo di uomini così complesso, eterogeneo e per certi versi fragile, affrontare un percorso di riabilitazione di gruppo attraverso il cinema? Che senso ha un corso per realizzare un cortometraggio quando sei in attesa di giudizio? Dopo cinque mesi di intensi incontri e di prove, si gira. E qualcosa è cambiato…
A una prima lettura la sinossi potrebbe far pensare immediatamente all’ennesima opera che punta la macchina da presa sui temi della sopravvivenza in ambito penitenziario, del fare Arte in carcere come strumento di “evasione” dalla condizione di detenzione, ma non è esattamente così. Esistono, come avremo modo di evidenziare, delle sostanziali differenze che mettono A tempo debito su un piano diverso. Di progetti audiovisivi sulla materia in questione, infatti, ce ne sono in circolazione un numero piuttosto considerevole, con un incremento sostanziale registrato nel 2012 in seguito all’Orso d’oro conquistato alla Berlinale dai fratelli Taviani con il loro Cesare deve morire. Per cui trovare un motivo d’interesse che giustifichi quantomeno la visione di un nuovo film sull’argomento, non è mai semplice. Dobbiamo ammettere di aver assecondato anche noi la medesima idea pregiudiziale quando ci siamo trovati al cospetto di A tempo debito, ma ci ha pensato poi la visione a scacciare dalla mente gli spettri e le tracce di quel pregiudizio. E siamo sicuri che accadrà la stessa cosa a tutti coloro che avranno la possibilità di recuperare questo diamante grezzo del cinema del reale.
Anche se la location è per forza di cose la stessa (il carcere), così come il potenziale drammaturgico e gran parte delle tematiche messe in campo, il merito del regista è stato quello di aver spogliato il tutto dalla veste solita; una veste che a lungo andare non ha fatto altro che generare cloni, varianti e nulla di più. Particolarmente esaustiva, in tal senso, è la motivazione che ha accompagnato mesi or sono la menzione della giuria studenti al Festival di Todi attribuita alla pellicola del regista padovano, e che noi siamo andati a ripescare: “Per aver raccontato con intensità e delicatezza il difficile e cinematograficamente abusato tema della detenzione, senza scivolare mai nella retorica, nello stereotipo e negli stilemi legati all’immaginario comune dell’esperienza carceraria; per la capacità di coinvolgere emotivamente lo spettatore dal primo all’ultimo fotogramma utile, creando una forte empatia nei confronti delle storie e delle persone che le animano”. Queste poche righe sottolineano alla perfezione i meriti e i punti di forza del documentario.
Da parte nostra aggiungiamo che quello di Cinetto è un piccolo film nel film, che si riflette continuamente nel suo progredire, dove è il regista stesso a mettersi in gioco e a confrontarsi faccia a faccia con i protagonisti. Si sdoppia attraverso un attento gioco di metalinguaggio mano a mano che il racconto, le situazioni, le immagini e le parole che lo compongono, prendono forma e sostanza sullo schermo. Questo fa di A tempo debito un’opera che riesce ad andare oltre la superfice e oltre tutto ciò che ci si sarebbe aspettati da un film sul e nel carcere. Qui si assiste a qualcosa di più, che tocca altre corde come quelle dell’integrazione, della condivisione, della redenzione, dell’identità, dei legami e del potere intrinseco dell’Arte. Un magma, questo, delicato e incandescente, che Cinetto riesce a controllare e a riportare in ogni singolo fotogramma con cura e soprattutto grande rispetto nei confronti delle storie che ha raccontato e di chi le ha raccontate.
Francesco Del Grosso