Tradizione, musiche, colori
Alla Berlinale, si sa, l’offerta è sempre molto vasta. Talmente vasta che, purtroppo, molti lungometraggi che possono rivelarsi delle vere e proprie perle, il più delle volte passano quasi in sordina. Nella sezione collaterale Forum, ad esempio, ecco comparire un piccolo ma notevole documentario – già presente in fase di progettazione alla 72° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia – che, essendo stato tra le prime proiezioni di questa 67° edizione del Festival di Berlino, fa sperare in ottime sorprese future. Stiamo parlando di House in the Fields, realizzato dalla giovane regista marocchina Tala Hadid, la quale – oltre ad aver diretto la pellicola – ne ha anche curato la sceneggiatura, la fotografia ed il montaggio. Un film realizzato con una piccola troupe e con pochissimi fondi, di fatto. Eppure, l’ennesima prova che il cinema non sempre necessita di grossi capitali. L’importante è avere qualcosa da dire (e, soprattutto, da mostrare).
Ed ecco che, con una troupe ridotta quasi all’osso, la Hadid in persona si è recata in un piccolo villaggio pedemontano dell’Alto Atlante, al fine di seguire passo passo la vita di due sorelle – Fatima e Khadija – le quali, da sempre legatissime, si trovano a dover affrontare – vivendo una vita a cavallo tra passato e presente, tra tradizione e cambiamento – il non facile passaggio dall’infanzia all’età adulta. L’imminente matrimonio di Fatima sarà l’evento che segnerà definitivamente la vita delle due ragazzine.
D’accordo, il periodo adolescenziale e pre-adolescenziale è stato, fino ad oggi, più e più volte messo in scena. Eppure – vuoi per la struttura narrativa adottata, vuoi per l’approccio scelto, vuoi per il contesto in cui le due protagoniste vivono – House in the Fields si classifica come un prodotto con forte personalità ed una ben marcata identità.
La vita delle due sorelle viene scandita attraverso le stagioni. Siamo in inverno – stagione fredda, stagione in cui si vive la quotidianità aspettando mesi più caldi – quando la giovanissima Khadija, parlando direttamente in camera, presenta al pubblico sé stessa e sua sorella. Il suo monologo, però, dura ben poco. Per il resto del tempo la parola viene lasciata alle immagini. Ed ecco che un tripudio di colori, canti e musiche invade lo schermo. Sono le antiche tradizioni popolari che, vive ed affascinanti più che mai, vengono portate avanti non solo dalle due ragazze, ma soprattutto dalla loro madre e dalla loro nonna. Donne con abiti variopinti, mani che si dedicano ad accurati lavori di artigianato. Il pubblico, grazie ad un uso della macchina da presa mai invasivo ma vicino al punto giusto a ciò che si racconta, sente, di conseguenza, fin da subito di far parte di quell’ambiente. Accade così per la sezione dedicata all’inverno, così come per gli altri due capitoli: primavera ed estate. Raramente i personaggi raccontati parlano in macchina. Una delle due protagoniste, Fatima, appunto, lo fa addirittura per ultima, per raccontarci sé stessa ed il suo punto di vista riguardo ad un matrimonio imminente ma non del tutto desiderato. Raccontando, in poche parole, in che modo le giovani di oggi vivono le antiche tradizioni. L’unica stagione che non viene raccontata è proprio l’autunno, simbolo di qualcosa che sta tramontando e, dunque, poco in linea con la storia di due giovani che mille speranze ripongono nel loro futuro.
Dato l’approccio della regista – la quale, come abbiamo detto, salvo qualche breve intervista, si è limitata a filmare la realtà così com’è – gli unici momenti che quasi fanno storcere il naso sono quello in cui le due sorelle dialogano di notte tra loro e la scena in cui, dopo il matrimonio di Fatima, Khadija parla tra sé e sé chiedendosi perché la sorella l’abbia abbandonata. Sono momenti, questi, che risultano quasi staccarsi dal resto del documentario, in quanto risultanti eccessivamente costruiti. Ma poco male. È soprattutto lo sguardo attento e, in qualche modo, “affettuoso” della regista a far sì che House in the Fields venga ricordato come un piccolo gioiello di una cinematografia di cui, purtroppo, troppo poco ci è dato da vedere.
Marina Pavido