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Django

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VOTO: 6

Una storia, tante storie

Che in Germania si senta ancora molto forte la responsabilità di uno dei più brutali avvenimenti della storia, ossia dell’olocausto, è un dato di fatto. Così come è un dato di fatto che, nell’ambito di una manifestazione cinematografica come quella della Berlinale, l’importanza dei contenuti sociali e politici dei film presentati sia decisamente rilevante. Con queste premesse, non ci si stupisce che come film di apertura del 67° Festival di Berlino sia stato scelto proprio un lungometraggio come Django, in corsa per l’Orso d’Oro e diretto dal produttore cinematografico Étienne Comar, qui alla sua prima esperienza da regista. No, non si tratta di un altro omaggio al nostro connazionale Sergio Corbucci. In questo caso ci troviamo di fronte ad un biopic sulla vita del musicista Django Reinhardt e, ad una prima, sommaria lettura della trama, la cosa sembra presentarsi piuttosto bene. Ma andiamo per gradi.
Siamo nel 1943. Django Reinhardt registra un successo dopo l’altro nei teatri parigini. A causa delle sue origini – la sua famiglia era di etnia sinti – il giovane viene tenuto sotto controllo da alcuni ufficiali nazisti presenti in città. Al termine di una sua esibizione, Django viene invitato ad una fantomatica tournée in Germania, durante la quale avrà anche l’occasione di esibirsi alla presenza di Goebbels e del Führer. Una vecchia amica, però, lo mette in guardia circa le vere intenzioni delle autorità tedesche che lo hanno invitato. Al musicista non resterà, dunque, che mettersi in fuga con la moglie incinta e con l’anziana madre, al fine di far perdere le proprie tracce ai tedeschi e di tornare a vivere presso la sua comunità di origine.
D’accordo, questo episodio nello specifico – per quanto riguarda la vita di Django Reinhardt – è indubbiamente interessante. Perché, allora, questo lungometraggio di apertura ha fatto storcere il naso a molti? Il principale problema, innanzitutto, è che, lo sguardo del regista – al di là del dramma personale messo in scena – non si allontana mai dal protagonista, non cerca di indagare circa il contesto storico, non va alla ricerca di qualcosa di nuovo, di qualcosa che ancora non è stato raccontato. Il risultato finale è, dunque, un film sì ben girato, ma anche un prodotto come già se ne sono visti a bizzeffe e del quale, purtroppo, non resta molto, al termine della visione.
Ovviamente, come abbiamo già detto, questo Django di Comar qualche pregio ce l’ha eccome. Molto intensi, ad esempio, i primi piani dedicati a Reda Kateb, indovinato protagonista della pellicola (a “rischio” di premio?), così come “coraggiose” e ben sfruttate sono le carrellate/contre-plongé che – nella scena iniziale – inquadrano uno ad uno i musicisti durante un’esibizione a teatro. Sempre d’effetto, tra l’altro, sono gli sporadici riferimenti al cinema sparsi qua e là, sia, ad esempio nella scena in cui Django assiste ad un filmato-caricatura di Hitler, sia quando egli stesso propone alla sua amante di andare a sognare al cinema. Il momento di maggior impatto, tuttavia, è rappresentato proprio dalla fuga dello stesso Reinhardt: il trovarsi, disperato, in mezzo ad una distesa di neve non può non farci pensare – quasi con rammarico, verrebbe da dire – al recente capolavoro di Pablo Larrain, Neruda. Ovviamente questo lungometraggio di Comar nulla ha a che vedere con il primo, eppure anche in questo caso la scena funziona.
Detto questo, Django non ha più niente da comunicare. Un film come tanti, un’ulteriore copia di quello che abbiamo visto da diversi decenni a questa parte. Si potrebbe addirittura affermare che – data la buona realizzazione unita ad una scarsa potenza dello script – questa opera prima di Étienne Comar possa classificarsi quasi come uno sterile esercizio di stile, che ben presto finirà nel dimenticatoio collettivo. Peccato. Soprattutto dispiace che questa 67° edizione della Berlinale abbia avuto un’apertura piuttosto tiepidina. Ma tant’è. Probabilmente – anzi, quasi sicuramente – le migliori cartucce devono ancora essere sparate.

Marina Pavido

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