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Bobby Sands: 66 Days

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VOTO: 8

L’estremo sacrificio

Se Hunger (2008) di Steve McQueen aveva trattato la parabola carceraria di Bobby Sands dal punto di vista intimo e poetico attraverso un’ottima ricostruzione di finzione, per comprendere in modo dettagliato il contesto in cui è maturata l’estrema decisione dell’attivista dell’I.R.A. (Irish Republican Army, braccio armato del movimento indipendentista nordirlandese) di digiunare in carcere fino alle estreme conseguenze, è assolutamente necessario recuperare Bobby Sands: 66 Days, documentario diretto da Brendan Byrne presentato nell’ambito della decima edizione dell’Irish Film Festa. Tale premessa, ovviamente, non esclude affatto un possibile coinvolgimento emotivo dello spettatore, tutt’altro; anzi, la costruzione che Byrne imprime al suo documentario possiede molto non solo di narrativo ma anche di teorico. Pur essendo al corrente del tragico epilogo della forma di lotta estrema compiuta da Sands e altri attivisti, incarcerati dagli unionisti britannici, nel tentativo di veder riconosciuto il loro status di prigionieri politici a cavallo tra la fine dei settanta e gli anni ottanta, l’implacabile scansione dei sessantasei giorni di digiuno, ivi compresa la descrizione del progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute del prigioniero, ha la capacità di dilatarsi nel tempo e nello spazio al fine di contestualizzare in maniera pressoché completa il quadro sociale e politico dell’annoso conflitto tra unionisti protestanti fedeli al Regno d’Albione e indipendentisti cattolici.
Tutto quello che sarebbe lecito chiedere ad un “documentario storico” – perché tale è da considerare Bobby Sands: 66 Days visto oggi – nel film di Brendan Byrne è presente. Certamente empatico verso la figura di Sands ma mai fazioso, il lungometraggio allarga con obiettività il proprio focus anche sui numerosi errori – che forse sarebbe meglio definire orrori, data la presenza di vittime assolutamente innocenti – strategici compiuti dall’I.R.A., rievocati mediante immagini di repertorio mai casuali o gratuite e le parole dei secondini britannici che videro le rispettive esistenze e quelle delle loro famiglie messe a rischio a causa dell’ingrato lavoro compiuto. Effetti collaterali di una guerra, si sarebbe tentati di definirli. Se non fosse che il lungometraggio diretto da Byrne mette in mostra con piena consapevolezza tutta l’assurdità di un classico “muro contro muro” che non aveva motivazione di essere, a maggior ragione analizzando i fatti che, a posteriori, hanno portato al faticoso ma tuttora stabile accordo di pace tra le due parti in lotta. Questo è allora il messaggio morale – e universale – propugnato tra le righe da Bobby Sands: 66 Days: non vedere la catena di violenza al pari di una conseguenza logica dell’odio ma come un evento assurdo ed evitabile, la cui responsabilità non può non ricadere sulle spalle di coloro che, al tempo, avevano per potere il coltello dalla cosiddetta parte del manico, ovvero i governi conservatori inglesi con quello capeggiato dalla Lady di Ferro Margaret Thatcher in primis. Situazioni queste che si ripetono a varie latitudini, nel passato, nel presente (Palestina docet) e nel futuro senza che spesso si faccia alcunché per evitarlo, arrendendosi allo status quo. Ecco dunque che il calvario laico di Bobby Sands, catalizzatore di immani sofferenze e seguito a ruota da quello di altri nove compagni di prigionia, diventò punto di svolta nella lotta, costringendo le due parti alla riflessione obbligata sul reale valore della vita umana e sul consapevole sacrificio di essa.
Bobby Sands: 66 Days fornisce dunque al suo pubblico tutti gli elementi per concedere il lusso di una risposta ad un quesito che, probabilmente, certezze assolute non ha. Lucido martire o stolto suicida? Al netto delle possibili implicazioni religiose sul gesto di Sands – che per fortuna il documentario evita – una lettura storica attenta dei fatti pare aver emesso un verdetto. Ed è davvero molto importante che sia il Cinema, dopo ben trentacinque anni e nella sua forma più rigorosa, a portare tutto questo a nuova luce moltiplicando le prospettive.

Daniele De Angelis

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