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Levante

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VOTO: 7.5

Non siamo api

Prima di addentrarsi sul terreno minato del diritto o meno all’aborto, inevitabilmente segnato da dispute religiose ed ideologiche, converrebbe dare un’occhiata ad opere quali Levante, non certo la prima sul tema ma altrettanto certamente utile a comprendere come sia la vita vissuta a dettare scelte assolutamente personali.
Siamo nel Brasile contemporaneo. Nazione ultra-cattolica dove l’aborto è ancora considerato reato penale. Abbondano gli aborti clandestini, con rischi enormi per la degente. Sofia, diciassette anni e orfana di madre, è una potenziale campionessa di volley. Se la sua squadra vincesse il campionato scolastico potrebbe spiccare il volo verso una brillante carriera. Si scopre precocemente incinta. Fine dei sogni?
L’opera prima della giovane regista Lillah Halla segue partecipe lo stato d’animo della protagonista, intenzionata a porre fine ad una gravidanza del tutto casuale. Sola, in un mondo in cui le regole vengono dettate da un atavico patriarcato in modalità religiosa dove le donne non hanno alcun diritto decisionale. L’unica possibilità, per Sofia, è quella di fare gruppo con coach (donna, ovviamente) e compagne di squadra. All’insegna del massimo realismo, Levante porta lo spettatore a vivere le tappe di un calvario burocratico senza fine, in cui i vari generi cinematografici si mescolano senza soluzione di continuità alcuna. Con, a rimanere particolarmente impresse, parentesi quasi da horror psicologico come nel caso della visita di Sofia ad una clinica officiale, nella quale personale medico e consigliera religiosa la ammoniscono sui ferali rischi anche legali di un aborto operato al di fuori delle regole. Cioè pericolo di vita per la partoriente, stupro o malattia accertata del feto. Altri tentativi, tipo una migrazione in Uruguay in compagnia del padre – apicoltore molto timorato di Dio con annessa metafora tra api e donne, delegate al ruolo di “produttrici” – vanno a vuoto. Perché il suddetto paese, molto più libertario sul tema, richiede una cittadinanza che la giovane non ha, pur essendo la madre defunta nata proprio in Uruguay.
Nel mezzo di tale, deleterio, caos, Sofia intreccia una relazione omosessuale con una compagna di squadra, da tenere ovviamente segreta.
Appare chiaro, anche a causa di questa circostanza narrativa, che Lillah Halla – anche sceneggiatrice con María Elena Morán, per un lungometraggio concepito e vissuto tutto al femminile – abbia intenzione di giocare di accumulo, fornendo un quadro in assoluto completo dell’attuale situazione della donna in Brasile. Decisione che in piccola parte zavorra Levante, facendolo somigliare in alcuni momenti più ad un pamphlet che ad una sincera opera di denuncia. Opera comunque capace di un ulteriore metamorfosi nello scioccante finale, dove emergono di prepotenza tutte le ipocrisie di un paese disposto a rischiare due morti (donna e feto) allo scopo di non transigere da principi drammaticamente obsoleti.
Basterebbe solo tale, assurda, contraddizione a giustificare la vittoria di Levante (titolo ad auspicare un’agognata rinascita) nell’edizione 2024 del sempre lungimirante Bergamo Film Meeting. Invece c’è ancora molto altro. Perché Levante è un’opera che offre l’opportunità a tutti gli spettatori di comprendere una determinata situazione, uscendo definitivamente da posizioni pregiudiziali. Rispettando l’opinione altrui al pari della propria. Magari provando, per una volta, a mettersi nei panni di una persona alle prese con una situazione senza apparente via d’uscita. Un cinema geograficamente lontano e invece molto, molto vicino. Dalla valenza universale, oseremmo affermare.

Daniele De Angelis

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