Allegro ma non troppo
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è affatto facile dar vita ad un film corale. O meglio, non è affatto facile far sì che il film corale a cui si è dato vita sia esattamente ciò che si dice un prodotto soddisfacente e ben riuscito. Volendo, per un attimo, mettere da parte colui che dei film corali è sempre stato il maestro indiscusso – ossia il buon Robert Altman – non sono molti, di fatto, i lungometraggi del genere realmente degni di nota. Non sono molti, eppure ci sono. Se a tale formula uniamo il tema della disabilità – mentale o fisica che sia – ecco che subito ci salta alla mente un vero e proprio cult della storia del cinema: Qualcuno volò sul nido del cuculo, capolavoro di Miloš Forman diretto nel 1975. Eppure Forman non è stato l’unico a parlarci di disagio mentale. È dello stesso anno, infatti, l’interessantissimo documentario Matti da slegare, firmato Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, così come lo stesso Agosti quasi contemporaneamente realizza Il volo, altro toccante documentario che ci racconta un momento di “evasione” di alcuni pazienti dell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste. Volendo fare un salto di qualche decennio, ecco che – sempre restando in Italia – ritroviamo Si può fare, lungometraggio a soggetto diretto nel 2008 da Giulio Manfredonia, ambientato negli anni immediatamente successivi alla chiusura dei manicomi in seguito alla legge Basaglia. Sono questi tutti prodotti – chi più chi meno – degni di nota, che, in un modo o nell’altro, hanno “fatto la differenza”.
All’interno di un panorama dove, a quanto pare, tutto ormai sembra già essere stato detto, in che modo può distinguersi, dunque, un lungometraggio come Sanctuary, opera prima del giovane regista Len Collin, passato (ingiustamente) quasi in sordina al Festival di Cannes 2016 e presentato in anteprima italiana alla 10° edizione dell’Irish Film Festa? Indubbiamente, non solo per il tema trattato, ma anche per la particolare cura dedicata, nonché per la singolare messa in scena, questo lavoro di Collin, in fin dei conti, riesce a distinguersi eccome.
Tratto dall’omonima pièce teatrale di Christian O’Reilly, portata in scena dalla Blue Teapot Theatre Company, compagnia teatrale composta da ragazzi con disabilità intellettive, Sanctuary è stato girato con la medesima compagnia: ragazzi allegri, pieni di vita e con uno spiccato talento per la recitazione che sono riusciti perfettamente a portare avanti praticamente da soli – con leggerezza ed ironia – l’intero lungometraggio. Girato con un budget visibilmente ridotto, il film di Collin si svolge nell’arco di un’intera giornata: il giorno in cui un gruppo di ragazzi ospiti di una casa-famiglia viene accompagnato al cinema da un assistente. Nel momento in cui il ragazzo responsabile della loro uscita si allontana per accompagnare due di loro – innamoratissimi – a trascorrere un paio d’ore in una suite d’albergo, ecco accadere il finimondo: ognuno dei ragazzi uscirà dalla sala e andrà in giro per conto proprio nel centro della città di Galway. Ritrovarli tutti e riunirli per poter tornare a casa sembrerà, a questo punto, un’impresa praticamente impossibile.
I toni sono lievi e naïf. L’ironia e l’autoironia sono forti. Eppure, nonostante l’andamento “leggero” di tutto il lungometraggio, questa opera di Collin sta a denunciare soprattutto un sistema legislativo ottuso ed obsoleto, che non fa che discriminare ulteriormente chi soffre di disabilità di ogni genere, senza pensare in primis al benessere dei malati. Ed ecco che, nel momento in cui la legge vuol dire la sua, da commedia leggera, Sanctuary si trasforma in un prodotto crudo e disincantato, che ben poche speranze ripone in un prossimo futuro. Un film solo apparentemente “ingenuo”, con una propria, ben marcata identità e con un importante messaggio alla base. Un film, dunque, che, per la sua disarmante semplicità unita ad una forte efficacia comunicativa, lascia il segno. Vera e propria chicca all’interno del panorama cinematografico contemporaneo.
Marina Pavido