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A spasso con Bob

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VOTO: 5

Un gatto ti cambia la vita

Ci voleva una certa abilità – in negativo, beninteso – per non cogliere, cinematograficamente parlando, i lati magici di una vicenda che a raccontarla sembrerebbe proprio tale e quale ad una favola. E invece c’è riuscito appieno il mediocre Roger Spottiswoode in A spasso con Bob, tutt’altro che ben coadiuvato dalla piatta sceneggiatura scritta da Tim John e Maria Nation. Eppure le premesse per una storia che alternasse pregnanti momenti intimi ad altri drammatici c’erano tutte, anche perché scaturita da vita più o meno vissuta messa nero su bianco dall’autore stesso in alcuni romanzi di successo nel Regno Unito.
James Bowen, questo il suo nome, è un trentenne che conduce una vita a dir poco problematica. Sballottato in età infantile qua e là dal divorzio dei suoi genitori, torna a Londra da adulto, ma solo per venire irretito dalla tossicodipendenza. Con molti sforzi prova ad uscirne, grazie al prezioso aiuto di un’assistente sociale degna di questo nome; è comunque costretto a guadagnarsi da vivere suonando la chitarra e cantando canzoni ad ogni angolo di strada della capitale inglese. Fino al fatidico incontro con Bob, gatto di strada rosso di pelo con il quale nasce un rapporto di simbiosi assolutamente insolito, anche per via dello spirito indipendente che anima questa razza di animali. In poco tempo le performance musicali di James acquistano un buon numero di pubblico, con relativo aumento delle offerte in denaro, solo per la presenza di Bob placidamente accovacciato sulle sue spalle. Il resto è storia. Anzi, per essere maggiormente appropriati, leggenda.
Non sembrava davvero difficile costruire attorno alla figura dei due protagonisti un’operina delicata e poetica che fungesse da parabola morale sul rapporto tra essere umano ed animale in una cosiddetta società civile dove, con tutta probabilità, potrebbero essere proprio gli animali domestici ad insegnare qualcosa di veramente profondo al resto della “fauna”. Purtroppo nel film accade tutt’altro, con l’aspetto più edificante, in senso deleterio, della vicenda ad essere messo in mostra ad alti livelli di zuccherosità. Tutto, anche i momenti che si vorrebbero drammatici – come l’improvvisa scomparsa di Bob inseguito da un cane oppure la fase in cui James interrompe il metadone per tentare di uscire definitivamente dal tunnel della droga – viaggiano sottotraccia nel nome di un preciso ordine di scuderia, ovvero quello di smussare qualsiasi angolo possibile. In tal modo viene neutralizzato a monte qualsivoglia momento che potrebbe suscitare una qualche emozione di tipo empatica nello spettatore, costretto a sorbirsi interpretazioni senza nerbo (Luke Treadaway nella parte di James Bowen, ma pure il resto del cast “bipede”) o le solite, inutili e imbarazzanti soggettive feline piazzate senza criterio nel montaggio dal’anziano Spottiswoode, peraltro già recidivo nell’opera di banalizzazione del rapporto tra uomo e quadrupede nel pessimo Turner e “il casinaro” nel lontano 1989.
L’unico membro del comparto attoriale a provare a salvare la baracca è dunque proprio il gatto Bob, interpretato dal vero co-protagonista della storia, animale eccezionalmente comunicativo e cinegenico, se ci si passa il termine. Se, con tutta probabilità, avessero affidato a lui anche regia e sceneggiatura si sarebbe andati oltre l’abbastanza misera qualità di un film sin troppo convenzionale che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe solo suscitare la curiosità di andare a leggere i vari libri che ne hanno ispirato la realizzazione.

Daniele De Angelis

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