Dapitan, the end of story
Anche quest’anno l’apertura del Festival di Cannes, o la preapertura, della Quinzaine des Cinéastes (così è stata ribattezzata l’anno scorso la storica manifestazione parallela Quinzaine des Réalisateurs) è affidata al progetto La Factory des Cinéastes. Si tratta di un’iniziativa partita nel 2013 volta a promuovere giovani registi emergenti delle cinematografie di tutto il mondo, affidando loro la realizzazione di un corto di 15 minuti. Ogni anno il progetto si focalizza su una nazione e ogni corto è affidato alla codirezione di un regista locale e uno straniero, che così acquisisce dimestichezza anche nel dirigere un’opera all’estero con una crew di lingua differente. Quest’anno il progetto è atterrato nelle Filippine sotto l’egida di Lav Diaz. Il vincolo alle opere è stato quello di essere ambientate a Dapitan, nell’isola di Mindanao, città dove fu esiliato l’eroe nazionale José Rizal, caro a Lav Diaz come è noto a chiunque conosca i suoi film. A Dapitan esiste un grande luna park, cosa sfruttata nell’episodio Silig.
Gli episodi presentati sono quattro.
Cold Cut
di Don Josephus Raphael Eblahan (Filippine) e Siyou Tan (Singapore)
Il corto è incentrato su una ragazza, Joy, che sta per partecipare ai provini per un talent show, quando appare un macellaio che la conduce verso territori sconosciuti. Il film lavora sul mettere in relazione alcuni luoghi adiacenti e dalla funzione differente, il mattatoio dove penzolano teste di maiale, la sala delle audizioni, luogo estremamente kitsch popolato da personaggi bizzarri, che un po’ ricorda l’atmosfera felliniana di Ginger e Fred. A erigersi al di sopra di quei due mondi è la danza continua di Joy e del macellaio, quasi una danza cosmica che governa i sentimenti di odio e amore che si alternano tra i due giovani, una danza leggiadra che ricorda la capoeira in grado di armonizzare anche i momenti di lite. Il loro ballo, al ritmo di musica hip hop, rappresenta un’armonia universale, in grado di conciliare gli opposti, in una concezione molto simile a quella di Opera Jawa di Garin Nugroho. (voto 7)
Silig di Arvin Belarmino (Filippine) e Lomorpich Rithy a.k.a. Yoki (Cambogia)
Il corto è incentrato su due donne, Mamang, che vediamo tornare in barca nell’isola, dopo un’assenza di 20 anni, per incontrare Sabina (la lavdiaziana Angel Aquino). La prima è malata di cancro ed è rientrata proprio per affidare alla seconda l’organizzazione del suo funerale. Contro le tendenze della morale religiosa, lei dà disposizione per la cremazione. Il film si caratterizza come una girandola tra vita e morte, in un alternarsi di luoghi in cui le due donne passano il tempo, raccordati con stacchi bruschissimi. Le due bare in cui giacciono per chiacchierare, le giostre del luna park, la stanza del ghiaccio, la casa dell’orrore sempre nel luna park che combina le antinomie in un lugubre divertimento. Antinomie che si combineranno nel bacio finale tra le due protagoniste, un bacio casto aperto a ogni interpretazione. (voto 7.5)
Nightbirds di Maria Estela Paiso (Filippine) e Ashok Vish (India)
Il film racconta di una giovane donna, Ivy, alle prese con la dipendenza del marito nelle scommesse per i combattimenti tra galli. Da un lato i due filmmaker hanno il merito di rifarsi alla mitologia dei rispettivi paesi dove le figure di uccelli giocano un ruolo di primo piano, tra cui l’uccello Tigmamanukan, presagio di buona sorte nel folklore della popolazione filippina di lingua tagalog. Ma dall’altro il film soffre di una eterogeneità estetica, impiegando tanto storiche illustrazioni mitologiche quanto effetti speciali di computergrafica grossolana, nel trasformare per esempio la testa del marito in una testa di gallo. (voto 6.5)
Walay Balay di Eve Baswel (Filippine) e Gogularaajan Rajendran (Malesia)
L’unico dei quattro corti a rifarsi espressamente al cinema di Lav Diaz, fotografato con quello stesso bianco e nero, con la predominanza di elementi materici, il mare, le onde, le rocce, il cielo nuvoloso, il vento, gli alberi. La composizione dell’immagine è spesso raffinatissima, come in quelle scene in cui si apre una tapparella della casa ritagliando a strisce il paesaggio della spiaggia. E in comune anche la presenza di fantasmi della storia, in questo caso il conflitto di Marawi, la rivolta dello stato islamico repressa in una lunghissima guerriglia urbana. Il film è un tenero lamento struggente per la lontananza dalla propria terra natìa, da parte di due donne, madre e figlia che passano il tempo in quella casa sulla spiaggia fuori dal tempo, sognando di riuscire a tornare nella loro città sconvolta dai combattimenti. Notevole anche il montaggio sonoro che gioca su sventagliate di mitra che si confondono con il rumore disturbante di un trapano per lavori stradali che si abbinano a un precipitare in una sventagliata di stacchi di montaggio, rapidissima e spiazzante, a evocare i combattimenti che stanno sconvolgendo un mondo altrove. (voto 7.5)
Giampiero Raganelli