Amore non fa rima con cuore
È proprio vero che il primo amore non si scorda mai. Il suo, Cosimo Alemà sembra proprio non averlo dimenticato e Zeta ne è la dimostrazione lampante. Così, dopo le parentesi semi-action dalle venature fantascientifiche e pulp di At the End of the Day e La Santa, il regista romano torna alla sua vera casa artistica e creativa, quella che per molti anni ha abitato lasciando il proprio marchio di fabbrica. Quella casa è la scena rap e hip hop nazionale, alla quale torna ad attingere a piene mani per la sua terza fatica dietro la macchina da presa, distribuita nelle sale da Koch Media a partire dal 28 aprile. E per farlo, Alemà ha chiamato a raccolta esponenti più o meno illustri del panorama nostrano (da J-Ax a Baby K, da Rocco Hunt a Fedez, da Briga a Sante, da Ensi a Tormento e Clementino), affiancandoli a nuove leve attoriali come Diego Germini, Jacopo Olmo Antinori e Irene Vetere.
Il risultato è un film in tutto e per tutto musicale, tanto nel ritmo quanto nello stile e nel linguaggio usati, nel quale il regista capitolino non può fare altro che riversare tutta la passione e l’amore coltivate per decenni nei confronti di quei generi per i quali ha firmato centinaia di videoclip. Generi, come il rap e l’hip hop, del quale conosce alla perfezione il DNA e gran parte di coloro che in Italia lo hanno e lo continuano a generare. Tutto questo traspare e trasuda da ogni singolo fotogramma di Zeta, ma anche da ogni singola nota della colonna sonora che li accompagna sullo schermo. Alemà parla, descrive e mostra, ciò che gli appartiene e che conosce come le sue tasche. Questo gli ha permesso di muoversi con disinvoltura e al buio nei meandri di un habitat naturale a lui familiare. E proprio questa profonda conoscenza della materia gli ha consentito di trasferire il tutto nella messa in scena e nella messa in quadro. Di questo gli va reso merito, perché ci sono tantissimi colleghi, connazionali e non, che nel corso delle rispettive carriere si sono confrontati con storie, personaggi, atmosfere, ambienti e tematiche, a loro sconosciuti anche al termine del lavoro.
Con Zeta, Alemà cambia totalmente registro, genere e soprattutto target, firmando una sorta di “manifesto audiovisivo” per gli amanti dei generi musicali chiamati in causa. I potenziali spettatori del suo nuovo film sono, infatti, altri e siamo sicuri che l’orda impazzita di adolescenti, fan e cultori della materia, si riverserà in una delle 250 sale che lo ospiteranno. Da un punto di vista commerciale e di marketing, la scelta di puntare su figure note del panorama rap e hip pop made in Italy darà non poche soddisfazioni al box office. I dati, magari, ce lo confermeranno. E se vogliamo provare ad azzardare un paragone in termini di richiamo e impatto sulla suddetta tipologia di pubblico, la mente non può non tornare a Tre metri sopra il cielo. In tal senso, l’idea di puntare su questa realtà e su tutto ciò che le ruota intorno, costruendoci sopra un impianto drammaturgico e narrativo, è stata a nostro avviso una mossa particolarmente intelligente e anche molto furba. Del resto, quale momento storico migliore se non questo che vede esponenti del genere in questione scalare le vette delle classifiche discografiche e anche di quelle di gradimento sul piccolo schermo (vedi la trasmissione televisiva “Split” in onda sulla defunta MTV, oppure i vari rapper italiani scritturati nelle vesti di giudici/coach in programmi come “The Voice” o “X Factor”), per lanciarsi in un’avventura cinematografica? Alemà lo ha fiutato tanto da decidere di farci un lungometraggio di finzione, diversamente dal collega Haider Rashid che ha preferito qualche mese fa optare per un documentario dal titolo Street Opera.
Riconosciuti i meriti produttivi al film e al suo autore, però, non è tutto oro quello che luccica e infatti Zeta si trascina sullo schermo tutta una serie di limiti derivanti dalla scrittura che, a conti fatti, ne pregiudicano la riuscita. Alemà ha provato a importare nel Bel Paese un modello al quale non siamo preparati, che non abbiamo nel nostro bagaglio cinematografico. Così pur apprezzando il tentativo, allo stesso tempo il risultato che ne è derivato, drammaturgicamente parlando, non ci ha convinto. Messi da parte i pregiudizi e gli inevitabili quanto inutili confronti provenienti da Oltreoceano, riconducibili ai vari 8 Mile, Straight Outta Compton o Notorious B.I.G., sulla sceneggiatura pesa l’eccessivo frastagliamento nel racconto (raccordi tra una scena e l’altra discontinui e poco lineari che denotano un successivo montaggio con l’accetta), il disegno stereotipato di personaggi e situazioni (anche se certi meccanismi devono fare necessariamente parte di un progetto come questo), ai quali è negata qualsiasi pennellata di originalità, tanto da far apparire il tutto più che prevedibile, sia nello sviluppo narrativo sia in quello delle one line dei singoli personaggi.
Ci troviamo in una Roma che si divide verticalmente tra centro e periferia, ricchi e poveri, famosi e non famosi, Alex/Zeta (Diego Germini), Gaia (Irene Vetere) e Marco (Jacopo Olmi Antinori) sono tre amici poco meno che ventenni con il sogno di sfuggire al destino che la società ha in serbo per loro. La vita di strada, il lavoro al mercato, i casermoni di periferia, la povertà, il piccolo spaccio, il sogno dell’hip hop: questa è la vita per Alex fino a che il sogno non diventa realtà, e lui si trova catapultato nel mondo del rap a giocarsi la sua partita e a far vedere quanto vale. Ma gestire il proprio destino è una faccenda complessa e Alex commette molti errori, fino a ritrovarsi solo, con un successo effimero e senza punti di riferimento. Dovrà affrontare i suoi demoni, la durezza del mondo e la sua confusione per superare la linea d’ombra, imparando ad amare la sua rabbia e riuscendo nell’impresa più difficile: capire fino in fondo cosa desidera.
È sufficiente leggere la sinossi di Zeta per capire già sulla carta quante e quali traiettorie andranno a confluire nello script: dal romanzo di formazione e deformazione al confronto/scontro generazionale con le figure adulte, dal triangolo amoroso alla ascesa che porta al declino, con la ricca morale al seguito. Il numero elevato provoca purtroppo un’evidente saturazione nella timeline, difficile da gestire e da equilibrare. Non a caso l’impalcatura, tra una barra e una battle di freestyle, barcolla e poi finisce con il crollare. Diversamente da quanto accade invece nella messa in quadro, con Alemà che rispolvera per l’occasione lo stile ipercinetico e l’estetica tipica dei videoclip dei bei vecchi tempi, assolutamente in linea e in sintonia con la natura del progetto.
Francesco Del Grosso