In guerra per ardore
Le supereroine, indipendentemente dall’appartenenza alla scuderia Marvel o DC, non hanno sino a questo momento avuto particolare fortuna per quanto concerne le apparizioni sul grande e piccolo schermo. Per molti colleghi appartenenti allo sterminato universo fumettistico, in effetti, il passaggio dalla carta all’audiovisivo è stato meno traumatico e ha dato anche dei buoni frutti. Non si tratta di una posizione maschilista la nostra, bensì di una constatazione che trova un effettivo riscontro nella scarsa e poco brillante filmografia che ha visto le eroine di turno protagoniste assolute di Cine-Comics o serie televisive di ieri e di oggi. A dimostrarcelo, infatti, sono i pessimi esempi che abbiamo avuto in questi anni, a cominciare dai due spin-off di Elektra e Catwoman, rispettivamente affidati a Rob Bowman e Pitof, oppure la serie televisiva statunitense Supergirl con Melissa Benoist. Allo stesso tempo, per dovere di cronaca, va sottolineato il fatto che le occasioni per provare a fare bene e per mettersi in mostra sono state decisamente inferiori in termini di percentuali rispetto a quelle concesse ai maschietti mascherati. Ma se i risultati sono stati quelli che abbiamo citato, allora forse è stato meglio così.
Di conseguenza, non nascondiamo che abbiamo sperato sino all’ultimo che la Wonder Woman di Patty Jenkins, con Gal Gadot ancora nelle vesti della celebre principessa Amazzone dopo lo sfortunato battesimo di fuoco al cinema dello scorso anno in Batman v Superman: Dawn of Justice (la vedremo prossimamente in azione anche in Justice League e Justice League 2), risollevasse in qualche modo le sorti invertendo il trend negativo ad oggi registrato. Purtroppo, ciò non è accaduto, al contrario ha deluso in pieno quelle aspettative che noi, e molti come noi, avevano riposto nella pellicola per via di due ottimi motivi: da una parte il passato glorioso del personaggio creato da William Moulton Marston nel 1941 sia su carta (considerata una delle tre icone di base dell’universo immaginario della DC Comics, insieme a Batman e Superman, e alla quinta posizione nella Top 100 Comic Book Heroes, ovvero la classifica dei cento migliori supereroi dei fumetti, dietro a Wolverine e davanti a Capitan America) che nel tubo catodico all’epoca delle tre stagioni (trasmesse tra il 1975 e il 1979) dell’omonima fortunata serie a stelle e strisce interpretata da Lynda Carter; dall’altra la presenza dietro la macchina da presa di una regista di spessore e peso come la Jenkins, autrice per coloro che non se lo ricordassero del pregevole e pluripremiato Monster.
Ora, dopo aver visto finalmente questo Wonder Woman, nelle sale con Warner Bros Pictures a partire dal 1 giugno, abbiamo dovuto a malincuore alzare bandiera bianca e arrenderci alla triste evidenza. Di fatto, nemmeno l’apporto della cineasta americana (la prima a dirigere un Cine-Comics) è servito a tenere a galla l’operazione al di sopra della linea di galleggiamento della sufficienza. In tal senso, lo script che si è trovata tra le mani la Jenkins, che nel bene e nel male ha cercato di riassumere e a rispettare il più possibile l’anima e il plot della matrice originale, spesso dovendo ricorrere a voli pindarici e ad evidenti forzature all’interno del racconto per fare quadrare i conti, non l’ha aiutata a portare sana e salva la nave in porto. Ma andiamo per gradi e capiamo cosa e chi ha provocato il cortocircuito.
La storia dovrebbe essere già nota, ma per sicurezza ve la rammentiamo. Nella pellicola ritroviamo ovviamente Diana (nome umano della protagonista), una principessa delle Amazzoni che è stata cresciuta su un’isola protetta dal mondo e addestrata per essere una combattente invincibile. Dopo che un pilota americano, Steve Trevor, precipita sull’isola e le racconta di una guerra mondiale che sta accadendo tra gli uomini, Diana decide di lasciare la sua patria per tentare di fermare il conflitto. Oltre ovviamente non possiamo andare, pena lo spoiler. Ciò che possiamo dire é che l’odissea bellica da lei vissuta al fianco di un valoroso manipolo di umani la porterà a scoprire i suoi veri e immensi poteri e il suo destino.
Insomma, il più classico degli sviluppi per un Cine-Comics che segue alla lettera delle traiettorie narrative e drammaturgiche ampiamente codificate e ormai logore dei prodotti del già ricco filone. In poche parole ci troviamo al cospetto di un intreccio debole di one lines che portano a un finale ampiamente prevedibile. Questo Wonder Woman è privo di qualsiasi velleità autoriale o tentativo di introspezione in grado di stratificare in qualche modo la vicenda e il personaggio che lo anima (vedi la trilogia nolaniana di Batman). Tormenti, estasi e dubbi amletici che si sono abbattuti su molti dei suoi illustri colleghi nei rispettivi percorsi di ricerca della verità, della giustizia e della propria identità (vedi ad esempio Wolverine), nel suo caso cedono facilmente il passo a un ritratto approssimativo e appena abbozzato. Di conseguenza, la natura del personaggio stesso e il disegno che ne deriva passano in secondo piano a favore di altro, ossia dello spettacolo marziale e balistico in stereoscopia e nella stragrande maggioranza dei casi decelerato con fiumi di rallenti, dove le avventure di Xena – Principessa guerriera o quelle al centro di pellicole come Le Amazzoni – donne d’amore e di guerra, Le guerriere dal seno nudo e Furia e le Amazzoni si mescolano con lo stile ultrapop di 300.
Le due ore e passa di timeline spingono la fruizione dello spettatore di turno per inerzia e cinetica. Queste sono offerte a grappoli sullo schermo attraverso una serie di scene dove sono i VFX a fare la voce grossa e a dettare le regole del gioco, alcune delle quali dal tasso spettacolare molto elevato (ben supportate da un 3D efficace e funzionale) come l’attacco alla scogliera della nave tedesca o la distruzione delle trincee nemiche e la liberazione della cittadina di Velt. Per il resto, è una successione concatenata di eventi che non servono ad altro che a traghettare la platea sino al già citato epilogo; quanto basta per scrivere, almeno per il momento, la parola fine prima dei titoli di coda.
Francesco Del Grosso