Questa sì che è (una) vita!
C’è modo e modo di raccontare una vita. Il racconto di una vita umana, di fatto, può assumere tutte le forme possibili. Anche solo volendo restare in ambito cinematografico. È soltanto, però, quando macchina da presa e script trovano una giusta armonia che nascono veri e propri gioielli. Uno di questi, ad esempio, è stato presentato in concorso alla 73° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Stiamo parlando di Una vita – Une vie, diretto da Stéphane Brizé – il quale, vista la sua precedente produzione, questa volta ci ha letteralmente stupiti – e tratto dall’omonimo romanzo di Guy de Maupassant. Un regista contemporaneo ed un drammaturgo dell’Ottocento, dunque, si sono uniti per dare vita a qualcosa di apparentemente modesto, ma, tuttavia di grande, grandissima potenza.
Modesto, di fatto, non è l’aggettivo giusto per descrivere questo ultimo lavoro di Brizé. Piccolo nemmeno, data l’importanza del progetto in sé e data la sua realizzazione stessa. Eppure il destino di Une vie (come recita il solo titolo originale) potrebbe essere pericolosamente quello di passare sul grande schermo quasi in sordina, dal momento che, dati i precedenti, il cinema di Brizé sembra allettare in realtà pochi, pochissimi spettatori e che proprio dove il lungometraggio avrebbe potuto fare incetta di premi, è passato (ingiustamente) quasi inosservato. Fatta eccezione, ovviamente, per sguardi più attenti. Une vie è, di fatto, non solo una semplice trasposizione cinematografica di un buon romanzo, ma una vera e propria rilettura dello stesso, con un punto di vista del tutto personale – ma maturo e consapevole – che da solo ha dato vita ad un vero e proprio piacere per gli occhi e per lo spirito. Un piacere rotondo, pieno, una vera e propria soddisfazione letta nell’ottica della qualità filmica in sé.
La vita qui messa in scena è quella di Jeanne, giovane aristocratica la quale abbandona presto il nido famigliare – ed il modo dell’infanzia – per sposare un Visconte del posto, ma che, al suo fianco – ed anche dopo la sua morte – non sembrerà mai trovare davvero la felicità. O quasi. Una Jeanne inizialmente infantile e sognatrice, apparentemente tranquilla ma estremamente appassionata. Una Jeanne con una grande carica dentro di sé che, però, non riuscirà mai a trovare un proprio sfogo, prigioniera com’è prima di un matrimonio infelice, poi dell’affetto nei confronti di un figlio che sembra pensare soltanto al denaro.
Tale prigionia viene ben resa da Brizé tramite un singolare uso del formato 4:3, il quale, a sua volta, racchiude la protagonista, per tutti i quasi trent’anni di vita raccontatici, in inquadrature spesso anguste, troppo, troppo strette per la carica vitale della giovane Jeanne. Carica che, a sua volta, viene ben resa da un copioso uso di camera a spalla: movimenti di macchina spesso veloci, talvolta repentini, appassionati, arrabbiati e disperati, i quali, però, non sembrano trovare spazio al di là delle strette inquadrature. Il tutto sta, dunque, a creare uno scenario ideale per la rappresentazione della protagonista, il cui punto di vista ci accompagna durante tutta la messa in scena e mai viene abbandonato. Una protagonista che, analogamente a quanto avviene per altri personaggi (in particolare per quanto riguarda la figura di Rosalie, dama di compagnia di Jeanne) è soggetta a continui cambi di registro – oltre a compiere, nel corso del lungometraggio, una vera e propria trasformazione da ragazzina ingenua e sognatrice a donna di mezza età cinica e compassata, la quale sembra addirittura aver perso, a tratti, la lucidità – senza che la propria credibilità ne risenta minimamente. Una protagonista che sul grande schermo funziona non soltanto grazie ad un’impeccabile scrittura, ma anche per merito di una bravissima Judith Chemla, la quale, nel caso in cui avesse vinto la tanto agognata Coppa Volpi alla Miglior Interpretazione Femminile, avrebbe messo d’accordo non pochi spettatori.
Ma, si sa, la Mostra di Venezia ormai da tempo terminata, i premi – nel bene o nel male – sono stati assegnati e di Une vie resterà a chi l’ha visto o lo vedrà ad ogni modo un bellissimo ricordo. E questo, se permettete, non è roba da poco.
Marina Pavido