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We Are Human

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VOTO: 8

Il lato oscuro del Giappone

La sezione dell’Ottobre Giapponese, curata come sempre da Marco Del Bene, della XXI edizione del Ravenna Nightmare Film Fest è dedicata al cinema dell’abbandono; tre lungometraggi che raccontano un Giappone inedito per noi occidentali, mostrando luci ed ombre della Terra del Sol Levante.

Toccante e crudo, il documentario We Are Human di Ko Chanyu parla di discriminazione dello straniero: dai giapponesi di origine coreana ai tecnici tirocinanti, dai rifugiati ai detenuti nei centri di immigrazione, rigide leggi consentono un trattamento iniquo e spesso disumano che Chanyu documenta con immagini di repertorio ed interviste a tutto tondo, che ben mostrano il dramma di una situazione a dir poco anacronistica, oltreché inaccettabile in generale ed in particolare in un paese altamente civilizzato come il Giappone.

Giapponese di origine coreana, il regista racconta con dovizia di particolari la discriminazione attuata verso i coreani nel tempo, dalla situazione delle scuole coreane, più volte chiuse in passato in virtù di una forzata giapponificazione, alle manifestazioni per la loro riapertura sedate con la violenza, sino alla limitazione dei propri diritti ed al divieto di doppia cittadinanza (valido per tutti gli stranieri residenti in Giappone); il mantra ricorrente è “tornate in Corea”, ma quale? L’occupazione della Corea dal 1910 fino alla seconda guerra mondiale ha sicuramente favorito l’immigrazione della popolazione nella Terra del Sol Levante in cerca di un futuro migliore, ma la temporanea divisione del 38° parallelo tra le forze liberatorie occupanti russe ed americane, divenuta inalienabile in seguito alla guerra di Corea finita nel 1953, ha reso il ritorno una opzione difficilmente praticabile. Oggi la Corea come la conoscevano non esiste più, spezzata in due metà inconciliabili, dividendo, come in Germania col muro di Berlino, popolazione e famiglie; allo stesso tempo, l’integrazione nel paese che li ha accolti è viziata da una forte discriminazione. Sui sensi di colpa di parte della popolazione giapponese ha fatto leva la Chiesa dell’Unificazione, spingendo alla rovina finanziaria i propri membri per espiare con il proprio sacrificio le vessazioni procurate ai coreani in oltre trent’anni di occupazione; ma questa è un’altra storia, ben descritta nel suo documentario Revolution+1 dal regista Adachi Masao.

La discriminazione dei coreani è stata applicata poi anche ad altri stranieri; nel suo We Are Human, Ko Chanyu parla anche di tirocinanti provenienti da paesi del sudest asiatico, assunti con un contratto di formazione lavoro di massimo 3 anni durante i quali non è previsto un ricongiungimento familiare, ma, soprattutto, che li vincola ad una impresa senza possibilità di cambiarla, quali che siano le condizioni di lavoro. Un programma che rende praticamente schiavi i tirocinanti stranieri, e la cui sola possibilità di fuga è tornare nel proprio Paese d’origine.

Ma la pagina più nera riguarda i rifugiati, i richiedenti asilo, gli immigrati senza documenti; di loro si occupa una Agenzia per i servizi di immigrazione, particolarmente zelante, che li rinchiude, spesso senza motivo, in centri per l’immigrazione dove vengono sottoposti a violenza fisica e morale: picchiati, torturati, lasciati morire di malattie se non addirittura di fame. Il tutto sotto l’occhio delle telecamere di sorveglianza degli stessi centri di detenzione. Il caso della giovane Wishma ha suscitato una forte reazione nell’opinione pubblica, che ha chiesto, invano, a gran voce la revisione delle rigide leggi sull’immigrazione. Ma non è un caso isolato; le interviste a Orham, Deniz e tanti altri mostrano il lato oscuro di queste leggi, la cui applicazione disumana viola la garanzia dei fondamentali diritti umani. Un lato oscuro che non sembra voler vedere la luce: nonostante le proteste, oggi il governo giapponese sta discutendo infatti una nuova legge sull’immigrazione che, pensata per evitare lunghi tempi di detenzione, di fatto mira a rendere più facile la deportazione. A riprova del radicato sentimento isolazionista del Giappone, volto a preservare l’etnia unica del Paese.

Michela Aloisi

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