Lavorare al cancello rende liberi?
Cominciamo col sottoporre al lettore, in modo piuttosto ridanciano, un dubbio che ci era venuto dopo aver notato il titolo Wanha Markku nel fitto programma di Bergamo Film Meeting 2024: quello cioè che si trattasse di un improbabile biopic, realizzato in Scandinava per “omaggiare” una figura a dir poco controversa della nostra cultura popolare, Wanna Marchi! Del resto nel simpaticamente straniante Rosso (1985) di Mika Kaurismäki, sempre realizzato in Finlandia, si rendeva omaggio pure a Toto Cutugno e alla celebre canzone “L’italiano”, nel corso di in indimenticabile camera car, per cui niente è impossibile. Soprattutto al cinema. Soprattutto in Finlandia.
Sarebbe poi bastata una rapida letta del plot, nel caso di Wanha Markku (titolo internazionale, parimenti esplicativo: Under Construction), per rendersi conto di come questo documentario dal timbro personalissimo, realizzato dal finnico Markus Toivo e inserito a Bergamo nella sezione “Visti da vicino”, remi in una direzione assai differente da quella che avevamo goliardicamente ipotizzato. E vi è al contrario ben poco spazio per le risate. Giacché l’espressione “Wanha Markku” è al contrario diretto riferimento a una poesia finlandese post-bellica, già cupa di suo e carica di pathos, presa a modello dal padre del cineasta (il quale, ovvio, si chiama proprio Markku) per una scritta in ferro battuto da porre sul cancello d’ingresso della dimora di famiglia in campagna. E il fatto che il padre stesso paragoni beffardamente, a un certo punto, la foggia di tale scritta con il lugubre “Arbeit Macht Frei” posto invece all’ingresso di lager come Auschwitz, rivela che se c’è umorismo nel film tende semmai ad avere coloriture livide, nere.
Scendendo su un piano più concreto, l’ispirato film-maker finlandese Markus Toivo ha portato a termine un’operazione tanto delicata quanto ammirevole, in Wanha Markku, ricomponendo un puzzle famigliare complesso a partire dalla figura paterna, quella maggiormente in campo assieme al regista. E il documentario stesso, cui si potrebbe attribuire o meno una funzione “terapeutica”, diventa strada facendo la cartina di tornasole di un rapporto genitoriale difficile, sofferto, non soltanto perché a un certo punto il padre in questione (apprezzato come dentista nel circondario e particolarmente attento in famiglia alla dimensione pratica, ai tanti lavoretti iniziati – e non tutti finiti – da solo o con l’aiuto della numerosa prole) piantò in asso moglie e ben sette figli, per andarsi a rifare una vita altrove, ma perché nei ricordi infantili di tutti è rimasto impresso il suo carattere austero, grigio, severo, teso sempre a giudicare l’operato altrui.
Ritagliando con naturalezza scenette e situazioni che hanno anche un velato valore simbolico, Markus Toivo pone al centro di tutto l’accidentato dialogo ripreso, in tempi più recenti, col padre Markku. Ma il disagio diventa ancora più palpabile quando di quei piccoli lavori iniziati in campagna, con il cancello che diventa quasi un pretesto per il loro nuovo incontro, diventano partecipi anche gli altri fratelli maschi, chiamati a raccolta dopo svariati anni per un’inedita “reunion” famigliare. Nelle scene che li vedono assieme la tensione si taglia con un coltello e nessuno dei figli accenna nemmeno lontanamente a sorridere, per quanto siano tutti adulti e a loro volta padri di famiglia. Il regista è inoltre bravo a far dialogare il quadro attuale coi materiali di repertorio, con quei filmati girati durante l’infanzia che sembrano ugualmente suggerire qualcosa di irrisolto, relazioni bloccate o comunque condizionate dall’austerità paterna. Fino a suggerire una possibile catarsi in quelle inquadrature finali così originali, stranianti, cariche di senso, che vedono padre e figlio appollaiati di notte sulla scavatrice (solo uno tra i tanti macchinari collezionati dall’uomo, dedito con foga quasi maniacale ai lavori manuali) ed intenti a rivedere uno dei tanti filmini di famiglia proiettato, per l’occasione, sulla parete di quella casa in campagna divenuta col tempo una sorta di malinconico “genius loci”, un luogo carico di ricordi e di impressioni quasi mai positive, serene.
Stefano Coccia