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Un simple accident

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VOTO: 8.5

Aspettando la libertà

Un’immagine molto frequente nel cinema iraniano, molto utilizzata da Abbas Kiarostami ma anche dai suoi epigoni, come lo è Jafar Panahi, prevede dialoghi in automobile, anche molto lunghi, di due persone semplicemente riprese frontalmente da una mdp appena fuori il parabrezza. Un’istanza di cinema povero, essenziale, speculativo. Con una di queste scene inizia Un simple accident, l’ultimo lavoro di Panahi, presentato in competizione al Festival di Cannes 2025. Un momento abbastanza lungo, con una famigliola in viaggio, di notte, composta da padre, moglie in gravidanza avanzata, e la loro bambina. Un colpo interrompe i loro discorsi, l’inquadratura rimane fissa fino a quando il padre scende a vedere cos’è successo. Si accorge – l’immagine rimane fuori campo – di aver inavvertitamente investito un cane, uccidendolo. La mdp torna frontale sul parabrezza. La vivace bambina, che ricorda le protagoniste dei primi film di Panahi, Il palloncino bianco e Lo specchio, accusa il padre di aver ucciso il cane, la madre le risponde che tutto è avvenuto per casualità, e che comunque tutto avviene per il volere di Dio. Durante il corso del film si vedranno ancora due cani, attraversare la strada ma stavolta senza finire stirati, il caso o la provvidenza o autisti più attenti hanno giocato stavolta a loro favore. Un’opera che funziona come j’accuse di Panahi contro il regime iraniano, si iscrive in un contesto contemplativo, tra casualità, fato e volontà e libero arbitrio. Questo prologo è una descrizione in pillole della società iraniana attuale dove i giovani, qui rappresentati da una bimba che incarna la poetica del cinema nazionale, puntano il dito contro le generazioni precedenti e hanno forte il senso della colpa.
In effetti la bambina, senza saperlo, ha ragione ad accusare il padre che, si scoprirà, è un torturatore nelle famigerate prigioni dove vengono detenuti i dissidenti. E il caso gioca un ruolo ulteriore, perché proprio l’investimento del povero animale genera una reazione di eventi a catena. Il padre, a seguito di un danno al motore procurato dall’urto, porta l’auto a un’officina per una riparazione. Qui un meccanico di nome Vahid crede di riconoscere in lui il torturatore nella prigione in cui è stato detenuto per aver fatto propaganda contro il regime. Così lo rapisce, deciso a una tremenda vendetta: vorrebbe seppellirlo vivo in mezzo al deserto. Ma non è certo del riconoscimento, anche se l’uomo in effetti ha una protesi alla gamba proprio come il crudele secondino. Così raduna altri ex-detenuti che hanno subito le pesanti angherie dello stesso aguzzino, tutti in cerca di giustizia e rivalsa contro di lui. Sembra che le sue vittime in effetti siano tante. Panahi, che, com’è noto, ha subito lunghi periodi di detenzione, dà sfogo a tutta la rabbia contro il regime. I personaggi lanciano i loro strali, molto pesanti, contro la teocrazia. Non risparmiando pesanti epiteti nei confronti della Guida Suprema. Il gruppo però inizia a interrogarsi sul senso della propria vendetta. Chi propende per non ucciderlo proprio per non essere allo stesso livello di un regime che uccide, chi invece sostiene il contrario dichiarando uno stato, di fatto, di guerra. Il respiro di Un simple accident si fa talmente ampio da ragionare sullo stato delle proteste in atto. Quello che sembra importante, nel gruppo, è la procedura di identificazione del loro prigioniero politico.
Un’altra immagine simbolica del cinema persiano, sempre di kiarostamiana memoria, è quello che della distesa brulla con un albero che si erge solitario. Qui abbiamo lo spazio, surreale, metafisico, in mezzo al deserto, dove scavano la fossa per il presunto torturatore. Uno spazio vuoto, nel nulla, dove spunta solo un alberello smilzo, secco, con solo due rami. Sembra proprio la scenografia di Aspettando Godot, testo che viene anche citato dai personaggi, come descritta dallo stesso Beckett. La situazione si connota da teatro dell’assurdo e Godot rappresenta quell’anelito alla libertà che il popolo iraniano aspetta da tempo immemore, e che non sembra arrivare mai. Panahi va oltre il film militante. Conferisce a Un simple accident un tono picaresco nel delineare questa sgangherata banda, che comprende anche una fotografa di matrimoni e due futuri sposi in abito nuziale, in cerca di giustizia, o vendetta, vagando con un furgoncino che dovranno anche spingere a mano per un guasto. Le donne sono sempre senza velo, lo indossano, ma senza fretta, quando devono relazionarsi con qualcuno in maniera formale, come la fotografa con gli agenti, a sottolineare come ormai questa prescrizione islamica sia una pura, anacronistica, formalità. Nel loro viaggio emerge l’immagine di un paese dove facilmente si danno mance, pagandole con POS, per ottenere qualcosa, e dove un parto in ospedale deve prevedere la presenza del marito della partoriente, da identificare con i documenti, altrimenti la donna non viene accettata. C’è un altro testo teatrale che Panahi palesemente ricalca, ovvero La morte e la fanciulla di Ariel Dorfman, portato al cinema da Roman Polanski. E Panahi mostra anche il punto di vista del torturatore, pur responsabile di ogni nefandezza, ovvero un uomo votato al martirio, che crede nei valori della teocrazia islamica, e che pure ha combattuto in Siria, perdendo un arto. Ancora presto però per arrivare a una pacificazione, a scambiarsi pani e fiori come in Pane e fiore di Mohsen Makhmalbaf. Con Un simple accident Panahi racconta un paese spaccato da una profonda fattura, con due fazioni che vedono le cose in modo antitetico. Ma da entrambe le parti, la gente va avanti, si sposa, e ha figli. E la vita continua, per citare un altro grande classico del cinema iraniano.

Giampiero Raganelli

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