L’ultimo avamposto
Tra le piacevoli sorprese della quinta edizione di Oltre lo specchio Film Festival non possiamo non citare Tommy Guns, l’opera seconda di Carlos Conceição, presentata in concorso alla kermesse meneghina dove abbiamo avuto l’occasione di recuperarla e apprezzarla. Che poi tanto sorpresa non era viste le voci positive giunte alle nostre orecchie sul suo conto dalle manifestazioni del circuito internazionale alle quali ha preso precedentemente, a cominciare dall’anteprima mondiale nel 2022 in quel di Locarno, laddove la pellicola si è aggiudicata il premio della giuria giovani e il Label Europa Cinemas, per poi proseguire il suo percorso di tutto rispetto in altre prestigiose vetrine. Quello del regista portoghese tra l’altro è un nome che circola già da qualche stagione tra gli addetti ai lavori e la critica grazie ai consensi e i riconoscimenti raccolti in passato tanto sulla breve quanto sulla media e la lunga distanza dai lavori da lui scritti e diretti come l’horror-comedy Um Fio de Baba Escarlate e lo Sci-Fi Serpentário. Ecco allora approdare sullo schermo una nuova fatica dietro la macchina da presa che non fa altro che confermarne il talento e quando di buono mostrato in precedenza.
Con Tommy Guns, Conceição continua il suo personale cammino nel cinema di genere, esplorato in lungo e in largo con opere che mescolano senza soluzione di continuità stilemi e filoni. Qui il cineasta intreccia lo zombie-movie con il dramma storico riavvolgendo le lancette dell’orologio sino al 1974. Siamo in Angola, paese di origine del regista, anno in cui i portoghesi stanno lentamente abbandonando un territorio che viene via via riconquistato dagli indipendentisti. Mentre la colonizzazione giunge al termine, la strada di una ragazza locale si incrocia con quella di un soldato portoghese, che le porterà amore e morte. Intanto un intero plotone è barricato all’interno di uno spazio murato, da dove uscire sembra praticamente impossibile.
L’autore utilizza le “armi” del genere per parlare della guerra e lanciare alla platea di turno riflessioni su di essa, sottolineando più volte quanto il conflitto sia soprattutto uno stato mentale in cui i veri nemici siamo noi stessi. Lo fa attraverso la metafora politica dei morti viventi, seguendo alla lettera quella che è stata la lezione di George A. Romero, per poi pronunciarsi sulla storia, la tirannia e la colonizzazione proponendo lucidissimi ragionamenti dal peso specifico non indifferente sulla natura ciclica delle oppressioni e sul desiderio di molti esseri umani di mantenere a ogni costo il proprio potere sugli altri. Il tutto mostrando l’inesorabile declino psicologico di giovani soldati lasciati soli nella natura e intorpiditi dalla noia alle prese con una spirale di follia e violenza. Condizione mentale, fisica e topografica che richiamano all’attesa forzata narrata da Dino Buzzati in quel capolavoro letterario che risponde al titolo de Il deserto dei Tartari, che Conceição sembra idealmente prendere in consegna per intrecciarne i fili narrativi e drammaturgici con il The Village di M. Night Shyamalan.
Francesco Del Grosso