La trasmigrazione delle anime
Tra i titoli più attesi presenti nella line-up della quinta edizione di Oltre lo specchio Film Festival c’era sicuramente Eureka, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Lisandro Alonso, presentata fuori concorso nella kermesse milanese dopo la prima apparizione pubblica sulla Croisette nella sezione Cannes Première lo scorso maggio e più di recente alla 18esima Festa del Cinema di Roma. I precedenti firmati dal regista argentino, tra cui i pluridecorati e apprezzati dal pubblico e dalla critica La libertad, Liverpool e Jauja, hanno contribuito ad alimentarne il blasone e di conseguenza le aspettative nei confronti delle sue creazioni. Ecco perché sulla pellicola in questione, la sesta sulla lunga distanza, noi e tantissimi come noi avevano riposto non poche aspettative, con queste che a conti fatti sono state ripagate solo in parte se si pensa alle capacità del cineasta di Buenos Aires e al grade potenziale intrinseco del suo cinema.
Eureka si presenta come un’opera tripartita, composta da capitoli totalmente indipendenti l’uno dall’altro e apparentemente slegati, ma uniti tra loro da “ponti” in grado di collegare mondi, spazi, tempi e dimensioni sulla carta distanti. Come in Jauja, anche qui c’è un meccanismo narrativo che prevede dei cambiamenti improvvisi di fotografia, aspect ratio e stile, che tele-trasportano il fruitore di turno in luoghi ed epoche diverse per vivere storie e incontrare personaggi che hanno però un comune denominatore, quello di appartenere a una cultura nativa che il regista torna nuovamente ad esplorare con un film stratificato e perfino metafisico, nelle cui vene drammaturgiche scorrono senza soluzioni di continuità simboli, significati e significanti.
Si parte infatti da un western in B&N in 4/3 che vede un pistolero errante arrivare in un paesino decadente e inospitale senza legge al confine tra gli Stati Uniti e il Messico nel 1870 in cerca della figlia rapita, per poi terminare con il colore e il formato panoramico nel Brasile degli anni Settanta al seguito di un gruppo di indios. Se nel prologo si diletta a rievocare l’immaginario del western classico dei bei tempi che furono e di coloro che lo hanno reso grande omaggiandoli attraverso una replica fedele e filologica delle loro caratteristiche e del modus operandi, nel terzo dà libero sfogo a quel mix di simbologia e suggestioni relative alla trasmigrazione delle anime che gli sono valse il titolo di filosofo del cinema contemporaneo. Nel mezzo una tappa spazio-temporale ai giorni nostri che ci porta nella quotidianità di una riserva indiana in South Dakota, a Pine Ridge, stretta nella morsa di un gelo insopportabile, per seguire le vicende di Alaina, poliziotta in servizio chiamata a risolvere le situazioni più disparate. Ed è proprio in questo secondo atto che Alonso mette in mostra il meglio di sé e del suo modo di fare e concepire la Settima Arte, dipingendo con la luce livida del giorno e le sfumature del buio della notte nera come la pece un affresco desolato e degradato quanto dolente di una comunità che sembra aver lasciato al meth e ai suicidi giovanili l’unico futuro possibile.
Francesco Del Grosso