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Tiong Bahru Social Club

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VOTO: 8,5

Sorrisi forzati e obbligo di felicità

Singapore, vado a Singapore
Benedette, care signore
Singapore, vado a Singapore
Che mania di fare all’amore
I Nuovi Angeli

Ovviamente I Nuovi Angeli non c’entrano nulla col film in questione. Ma quando si cita la piccola nazione asiatica al sottoscritto torna subito in mente, autentico tormentone di anni ormai lontani, quella Singapore che aveva scosso le classifiche musicali italiane dei primi anni ’70, con le sue rime (neanche troppo) innocenti e un po’ bislacche. Eppure, è sufficiente aver frequentato un po’ di Far East Film Festival o di Asian Film Festival, per essere al corrente del fatto che da questo angolo di sud-est asiatico fortemente urbanizzato arrivano, neanche così di rado, opere cinematografiche di un certo pregio. Spesso firmate da cineasti giovani e dal talento alquanto precoce. Ed è proprio il caso di Bee Thiam Tan, il quale ci risulta appena alla seconda opera e comunque già dotato di linguaggio cinematografico personale, brillante, maturo.

Non banale si è dimostrato pure nel videomessaggio inviato al Cine Detour, in occasione della presentazione del suo film all’8° On The Road Film Festival. In tale contesto ha ironizzato sul fatto che a Singapore, nota rispetto alle aree limitrofe per il benessere diffuso, ci sarebbero altresì i lavoratori più tristi e inappagati al mondo. Il lungometraggio da lui realizzato sarebbe quindi una sorta di compensazione.
L’ironia di fondo presente in tali dichiarazioni sarebbe risultata ancor più chiara a visione avvenuta. Tiong Bahru Social Club è in effetti una sorta di controcanto dell’archetipico The Truman Show in salsa asiatica, allorché il mito della produttività e della spietata concorrenza a scuola o sul posto di lavoro, tipico di diverse culture asiatiche (vedi il Giappone e la Corea del Sud, come anche le più “progredite” tra le nazioni del sud est asiatico) viene messo alla berlina attraverso uno stile visionario, flemmatico, coloratissimo, in ultima istanza assai divertente come gli sketch demenziali messi in scena nell’iperbolica cornice creata per il racconto. Ne è protagonista Ah Bee, trentenne solare ma un po’ passivo che in occasione del suo compleanno si vede regalare, complice la madre, l’accesso al complesso residenziale denominato Tiong Bahru Social Club, un'(anti?)utopica comunità esclusiva e all’avanguardia, le cui politiche interne sono regolate da tecnologie innovative fondate sui famigerati “algoritmi”. Lo scopo è programmare la vita dei residenti secondo un modello di perfezione assoluta, le cui ipocrisie non tarderanno poi a rivelarsi, sicché il lavoro di Ah Bee e degli altri giovani coinvolti nell’esperimento dovrebbe consistere proprio nell’incrementare il livello di felicità generale. Tra sorrisi forzati e momenti di gioia visibilmente artefatti, però, il gioco si colora di una surreale ironia, che ingloba con una progressione inarrestabile e irresistibile quegli immaginifici siparietti, che possono far pensare per la loro audace stilizzazione un po’ alla poetica di Wes Anderson, un po’ alla follia di Aki Kaurismäki e un po’ all’umorismo stralunato di certe pellicole giapponesi. Tutto senza perdere comunque di vista quell’intelligentissima satira del lavoro in squadra e delle distorsioni che esso può subire, nella nostra strana epoca, da cui derivano alcune delle implicazioni più profonde del film. A gioire sul serio, quindi, più che il protagonista coi suoi nuovi amici/colleghi, saranno proprio gli spettatori amanti dei gatti, visto che a lasciare sullo schermo l’impressione più armonica e positiva sarà pur sempre un felino, tra l’altro davvero splendido, che non di rado ruba la scena agli umani che se ne prendono cura.

Stefano Coccia

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