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Gli invisibili

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VOTO: 7.5

I dimenticati

Oren Moverman è un regista che non ha paura di guardare dentro il lato oscuro del cosiddetto American Dream. E nemmeno di “sporcarsi” le mani in prima persona con la sofferenza e il dolore causati da chi agisce sui ponti di comando. La carta vincente del suo cinema è però quella di scegliere uno sguardo sempre poco convenzionale, per indagare su realtà che tutti vorrebbero lasciare in disparte, fino a dimenticarle del tutto. Dopo l’ottimo esordio di Oltre le regole – The Messenger (2009) – film che raccontava senza pietismi il dolore umano delle famiglie dei militari periti in Iraq, al momento del ricevimento della notizia da parte di due ufficiali deputati allo scopo – e il coraggioso Rampart (2011) sulla corruzione nella polizia, tocca ora all’opera terza, Time Out of Mind (nella versione italiana Gli invisibili), puntare simbolicamente la macchina da presa sugli effetti tangenziali della crisi economica sulle persone. Anzi, per meglio dire, su un individuo che possa rappresentare un’intera fascia sociale sommersa.
In questa chiave sembra facilmente interpretabile la scelta di Richard Gere – peraltro fautore del progetto – di impersonare George Hammond, uomo ritrovatosi quasi senza accorgersene a scendere i vari gradini che conducono alla povertà assoluta. Vedere una star che è stato – e forse lo è ancora – un autentico sex symbol nonché un uomo impegnato a favore di varie cause altamente meritorie, alle prese con un ruolo da homeless in cui si identifica alla perfezione, crea un senso di angoscia profondissima nello spettatore. Lo scatto di un meccanismo inconscio dalla forte valenza metaforica secondo il quale “se può capitare a lui allora davvero siamo tutti a forte rischio”. Ed è purtroppo esattamente – o quasi – così, con uno stato di crisi che sta risucchiando nel suo vortice anche persone che si ritenevano tranquille solamente qualche anno orsono in diversi angoli del globo. Il resto, a completare l’assunto di un film sicuramente sgradevole ma proprio per questo da vedere, lo fanno la sceneggiatura e la regia di Moverman, abile nell’alternare un pedinamento del personaggio quasi del tutto omologo – in una finzione che appare più vera del vero – a quello predicato da Cesare Zavattini ai tempi del neorealismo, a riprese ad allargare il campo, per osservare da perfetto entomologo sia la parte di umanità contigua a George che quella economicamente lontana. Con la dovuta presa d’atto di una burocrazia impietosa che fa ampiamente la propria parte nella negazione di un’identità “formale” al protagonista, come si trattasse di uno sbaglio sociale da rimuovere.
Eppure, il plot qualcosa del passato di George fa affiorare, con scientifica precisione allo scopo di far lavorare l’immaginazione del pubblico. Un rapporto con l’unica figlia (un’ottima Jena Malone) praticamente azzerato ma forse con una piccola possibilità di ricostruzione. In una delle sequenze chiave del film Hammond/Richard Gere suona bene un piano non accordato. Un segnale preciso di quanta sensibilità e talento possano celarsi dentro un uomo che non appare più come tale ad occhi altrui. In alcuni frangenti sembra quasi invisibile, con il flusso umano della Grande Mela – il film è interamente ambientato a New York – che quasi potrebbe passargli attraverso. Per questo Time Out of Mind è un film che racconta, con giusto distacco e sobrietà, dolori di straziante intensità; i quali avanzano di pari passo a piccoli episodi che restituiscono un brandello di senso alla vita: l’amicizia di un compagno di sventure, una lunga chiacchierata con una senzatetto (significativo cameo di Kyra Sedgwick, non accreditata) che fa da preludio ad una tenera notte d’amore, il gesto d’aiuto isolato di qualche benestante. Un’opera forse con qualche sequenza superflua – l’ottuso disinteresse del resto del mondo è forse un po’ troppo sottolineato – e dunque una lunghezza eccessiva, ma che ambisce a raccontare una storia umana senza la pretesa di fornire risposte ma anzi avendo la forza di porre sul tavolo questioni di ordine morale, politico e sociale. Tutto quello che il cinema – ci riferiamo ovviamente a quello che si autodefinisce impegnato – molto spesso si dimentica (?) di fare, magari per strappare qualche biglietto in più al botteghino.

Daniele De Angelis

P.S. Al termine della presentazione alla stampa nel corso del Festival Internazionale del Film di Roma, dove Time Out of Mind è stato inserito nella sezione competitiva “Cinema d’Oggi“, nemmeno l’ombra di un applauso. Qualcosa vorrà pur dire…

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