Il Mali necessario
Non tutti in Mali vengono per nuocere: nel caso del cineasta mauritano Abderrahmane Sissako, che nel 2006 vi aveva girato alcune scene del western Bamako, tornare a occuparsi del paese confinante ha significato denunciare quella piaga atroce, che lì ha dilagato in tempi piuttosto recenti. Tale piaga si chiama Jihad. Purtroppo nel 2012 miliziani al servizio del fondamentalismo islamico più truce e illiberale sono riusciti a occupare Timbuctu, città di grande importanza storico/culturale, tenendola in scacco per circa un anno e imponendovi la loro aberrante interpretazione del Corano. Le conseguenze, per la popolazione tenuta praticamente in ostaggio da codesti fanatici, sono state ovviamente pesantissime. Velo imposto a donne che avevano conosciuto molta più autonomia. Condanne a morte stabilite, con leggerezza, per qualsiasi infrazione a una morale rigidissima. Feroci e barbare lapidazioni. Ragazze sottratte con la forza alle famiglie, per essere date in sposa ai comandanti e ai soldati più fedeli dell’esercito invasore, provenienti spesso da altri territori. Grottesche proibizioni di ascoltare musica e praticare determinati sport. Insomma, la morte della società civile e l’imposizione di una teocrazia medioevale, fino all’arrivo delle truppe francesi.
In Timbuktu, film in concorso a Cannes nel 2014 e ora candidato agli Oscar, Sissako ha saputo rielaborare le cupe cronache di quel periodo, adattandole però a un linguaggio cinematografico decisamente maturo e a un’ironia tragica, capace di schiaffeggiare l’intolleranza religiosa più di certi scontati pamphlet. Sì, perché l’illuminata sceneggiatura dell’autore africano ha anche il merito di creare, sin dalle primissime scene, una preziosa dicotomia tra l’islam moderato e le follie dei jihadisti. I toni dell’opera oscillano poi più volte. Vi è una naturale empatia, arricchita di pathos, per le varie vittime di leggi assurde portate da fuori. Ma vi è anche una satira pungente nei confronti di quei fondamentalisti la cui stolidità, invece di essere associata a “superuomini” incorruttibili e assetati di sangue, come si sarebbe visto probabilmente in un blockbuster statunitense, si tinge spesso e volentieri di sfumature mediocri; rivelando anche un certo persistente disagio da parte degli occupanti, di fronte a quegli slanci vitalistici che la popolazione locale ostinatamente propone, alla faccia di arresti, frustate e kalashnikov sempre pronti a colpire.
Al bel film di Sissako si può rimproverare giusto l’epilogo un po’ troppo concitato, forse anche affrettato, confuso. Ma ciò che di Timbuktu doveva passare, complici un linguaggio cinematografico fluido e un rapporto vero, intenso, coi fatti narrati, colpisce dritto al cuore.
Stefano Coccia