Carlei, perché sei tu Carlei?
Quando nell’ormai lontano 1993 un film come La corsa dell’innocente irruppe nelle sale cinematografiche, conseguendo un buon riscontro di pubblico e qualche nomination a premi importanti, esultare per una simile novità era anche giusto: il minimalismo in cui era avvolto certo cinema italiano, quello che taluni non a torto consideravano da “due camere e una cucina”, aveva bisogno di scossoni del genere. La narrazione briosa dell’esordiente Carlo Carlei, quel suo rincorrere spazi aperti, immagini vive e una drammaturgia forte, veniva naturalmente incontro al desiderio di rompere i confini asfittici, in cui la produzione cinematografica nostrana si stava rinchiudendo. Ma un successo così precoce non ha portato, artisticamente parlando, a un prosieguo di carriera altrettanto brillante, per l’allora giovane autore. Meglio precisare: l’occasione è stata sfruttata, nel senso che durante gli anni successivi sono arrivate grandi produzioni americane (vedi Fluke con Matthew Modine, nel 1995) e operazioni televisive di sicura presa commerciale. Ma tra film TV su Padre Pio e improbabili remake de Il generale Della Rovere, il livello è progressivamente sceso.
Con questo Romeo & Juliet, presentato al Festival di Roma nel 2013, a dominare è una messa in scena indubbiamente sfarzosa, un po’ televisiva e un po’ teatrale, in cui mancano però quei guizzi registici o le opportune invenzioni di sceneggiatura, che avrebbero permesso all’opera shakespeariana di approdare sul grande schermo con un piglio diverso, più innovativo e moderno. C’è da scordarsi, quindi, l’indiscutibile appeal cinematografico di un film come il Romeo + Giulietta di William Shakespeare, diretto da Baz Luhrmann nel 1996. Qui, invece, il residuo godimento visivo è dato dalle affascinanti location (riprese effettuate principalmente a Mantova, più in particolare dentro Palazzo Ducale, Rotonda di San Lorenzo e Duomo, con puntate a Subiaco, Caprarola, Montagnana e Verona), selezionate con attenzione per solleticare il gusto degli spettatori statunitensi e britannici (in questi paesi il film è già stato distribuito), come anche dai ricchi costumi e dalla costante attenzione per gli elementi scenografici. La cura per questi aspetti finisce per brillare maggiormente in determinate scene, come quella tutto sommato vivace del ballo in maschera. Ma il resto è di una scontatezza assoluta. I bei volti di Douglas Booth (Romeo), Hallee Steinfeld (Giulietta), Ed Westwick (Tebaldo) e Christian Cooke (Mercuzio) possono costituire un’attrattiva per il pubblico giovane, mentre la verve di Paul Giamatti tenta di dare spessore alla figura di Frate Lorenzo. Ma la buona volontà degli attori non è sufficiente a riscattare l’impressione di un involucro vuoto, superficiale, nel quale gli immortali personaggi immaginati da Shakespeare galleggiano, baldanzosi, senza però approdare a una più profonda dimensione cinematografica.
Stefano Coccia