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The Waiter

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VOTO: 7.5

Relazioni pericolose

Con la proiezione al Bif&st 2019, laddove è stato presentato nella sezione “Panorama Internazionale”, The Waiter ha potuto aggiungere una nuova tappa al suo fortunato tour che contava già svariate apparizioni pubbliche alle diverse latitudini e una serie di riconoscimenti. Il motivo di tale riscontro nel circuito festivaliero sta probabilmente nell’intrigante fascino magnetico che l’esordio sulla lunga distanza di Steve Krikris è capace di sprigionare. Un fascino che, però, sembra fare più presa sugli addetti ai lavori e sulla critica, piuttosto che su un pubblico generalista. Quella diretta dal cineasta greco è, infatti, una pellicola la cui fruizione può risultare ostica, ma non di certo proibitiva, per chi non è disposto a mettersi in una posizione di ascolto e visione paziente e attenta a certi dettagli, perché è proprio lì che va cercata la chiave di lettura per entrare nel cuore di un “oggetto filmico” non meglio identificato. E di fatti è proprio lì, al di sotto della mera superficie della sceneggiatura, che siamo andati a scavare per trovare quello che andava trovato per apprezzare quello che di interessante e meritevole di attenzione c’è nel DNA narrativo e drammaturgico del film. Croce e delizia, a seconda dei punti di vista, di un progetto che impone allo spettatore delle regole del gioco precise. Prendere o lasciare. Non ci sono vie di mezzo. Sta qui l’ostacolo che si sceglie o no di oltrepassare e noi lo abbiamo fatto.
Krikris, come moltissimi suoi connazionali della new wave ellenica, chiede alla platea di fare uno sforzo più del dovuto per intrufolarsi e spiare nelle storie di turno. Si tratta dello stesso identico punto d’osservazione sulla e della vicenda che l’autore concede in The Waiter, nel quale ci ritroviamo senza preamboli a spiare “dal buco della serratura” nella vita di Renos, un cameriere che conduce un’esistenza semplice e tranquilla. Distaccato, quasi autistico, vive nel proprio mondo, nel tempo libero l’uomo ama dipingere piccole nature morte, leggere e curare le sue piante. Una routine quotidiana e ripetitiva destinata come spesso accade a essere interrotta. Il destino ha in serbo per lui una sorpresa quando resta coinvolto, suo malgrado, nella misteriosa scomparsa del suo vicino Milan. Tzina e “Il biondo”, due loschi personaggi legati al dirimpettaio, lo condurranno in un pericoloso viaggio che sfiderà quella routine quotidiana, a lui così cara, mettendone in discussione la capacità e la volontà di cambiare la sua vita in nome dell’amore. E della morte. I rapporti si evolvono, i segreti si svelano e la fiducia è messa a dura prova. Ce la farà Renos a portare a termine ciò che ha iniziato?
Alla visione affidiamo la risposta dato che ci troviamo al cospetto di un film che non è solo una di profonda ricerca psicologica, ma anche un complesso thriller esistenziale dalle venature noir che ci catapulta su un luogo di un delitto. Ispirato a fatti realmente accaduti a New York alla fine degli anni Ottanta e ambientato nell’Atene dei nostri giorni, The Waiter è la storia di un omicidio, raccontato dalla prospettiva di un uomo solitario. Gli ostacoli dei quali parlavamo in precedenza, che possono rendere meno accessibili l’opera a un pubblico di non addetti ai lavori, sta nel modo e anche nel ritmo che il regista greco ha scelto di utilizzare per narrare questa vicenda, del quale lui stesso è stato il testimone oculare quando viveva negli Stati Uniti. Il suo vicino di casa dell’epoca infatti fu ammazzato e lui intravide l’assassino. Da quella esperienza ha deciso di trarre un film in cui i fatti veri sono gradualmente diventati il pretesto per creare una storia di omicidio che fosse anche – e soprattutto – lo studio di un personaggio di finzione. Nella pellicola prende forma un microcosmo fatto di piccoli dettagli che mano a mano si fanno più grandi e chiari, ma non fino in fondo. Flashback, incubi e visioni spezzano la linearità di un puzzle narrativo che fa della dilatazione temporale e dei long take la cifra del racconto e di una dalla tavolozza linguistica di sopraffina composizione. In particolare il ritmo spalmato sulla timeline è il compromesso più grande da accettare per entrare in sintonia con un’operazione che altrimenti respinge. Attenzione non siamo ai livelli di staticità e riflessione cronometrica di un Ozu o di un Tarkovskij, ma le lancette dell’orologio comunque si prendono il tempo necessario per osservare quanto accade sul luogo del delitto, laddove il protagonista è chiamato a sostare con l’omicida, con quello che rimane della vittima e con una misteriosa donna, in un triangolo che si fa via via sempre più morboso.

Francesco Del Grosso

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