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Rosa

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VOTO: 7

Bisogna (re)imparare ad amarsi

«E in fondo sentire che niente finisce mai
È un tempo infinito il presente
Non passerà
Bisogna imparare ad amarsi in questa vita
Bisogna imparare a lasciarsi quando è finita
E vivere ogni istante fino all’ultima emozione
Così saremo vivi
Gabbia di ossa
Libero cuore
Hai preso dolcezza
Da ogni dolore»

Assistendo a Rosa di Katja Colja tornano in mente questi versi del brano cantato da Ornella Vanoni con Bungaro e Pacifico. Ci teniamo a chiarire che citandoli non c’è assolutamente uno spoiler in merito alla storia raccontata in questione; ma senza dubbio delle emozioni riguardano proprio la nostra donna. Si tratta del primo progetto cinematografico da protagonista di Lunetta Savino (ed era anche ora che ciò avvenisse) in cui l’attrice dimostra di essersi cucita perfettamente addosso un ruolo che si rivela un vero e proprio viaggio nel toccare con mano il dolore e successivamente la riscoperta di sé. Lei ha sessant’anni, è di origini meridionali ed è sposata con Igor (Boris Cavazza) – sloveno – da ben quarant’anni. Un grave lutto qual è la perdita di una figlia (la più giovane, Maja) porta inevitabilmente – e forse anche contro la propria volontà – a fare i conti con se stessi. L’altra figlia (Anita Kravos), nell’incipit, annuncia una notizia importante e positiva, eppure nulla sembra attraversarli. Il padre e la madre condividono la stessa casa, vivendola in un modo differente e percorrendo ognuno la propria strada, chiusi nella rispettiva solitudine. Cercando nella stanza che un tempo era abitata dalla figlia scomparsa, Rosa trova un oggetto che la porta all’incontro con Lena (Simonetta Solder), non una mera parrucchiera. Grazie agli incontri organizzati nel retro del negozio e vincendo le remore, la donna riconquista il contatto con se stessa (ma non vi anticipiamo volutamente altro).
La regista triestina, alla sua opera prima, sceglie di mettere in scena delle sfumature essenziali dell’essere donna (complice anche la sceneggiatura scritta a quattro mani con Angelo Carbone), esplorando anche i confini mentali e corporali, che spesso – tanto più da noi – sono ancora un tabù. Sin dalla prima inquadratura Rosa denota uno stile delicato, che vuole giocare in sottrazione e non urlare, il tutto in linea con l’atteggiamento della protagonista rispetto alla perdita.
Traspare nel lungometraggio lo sguardo documentaristico della Colja (talvolta resta a distanza e osserva, significativo il momento della cena tra marito e moglie in due stanze adiacenti) e di come abbia voluto rendere anche geograficamente i confini, non solo tra Trieste e la Slovenia, ma anche nel modo di vivere e sentire lo spazio della casa abitata da Rosa e Igor – e non solo (senza contare che la stessa morte è un limen). «Io voglio stare coi vivi e non coi morti come fai tu», ascoltiamo significativamente. Lo sguardo nel riprendere Rosa in rapporto al cimitero muta nel dipanarsi della vicenda quasi a voler evidenziare il cambiamento interiore elaborato dalla donna. La forza di Rosa risiede pure nei toni adottati, la Savino riesce a essere, infatti, una maschera del dolore trattenuto, senza trascurare l’ironia, fino a rendere nelle azioni e persino nei tratti del volto ciò che lei diventerà.
Il film è stato presentato in anteprima mondiale nella sezione Panorama Internazionale alla decima edizione del Bif&st e prossimamente uscirà in sala.

Maria Lucia Tangorra

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