Quando l’America andava veloce
Fermo restando l’amletico dubbio che Le Mans ’66 potesse rappresentare il film sul mondo delle quattro ruote che il grande Michael Mann – il quale nei crediti è citato come produttore esecutivo – aveva da anni in progetto di realizzare, c’è comunque da premettere l’assoluta eccellenza del risultato finale.
Più che il titolo italiano assegnato al film di James Mangold, cioè Le Mans ’66 – La grande sfida, risulta assai più significativo e pregnante quello originale, ovverosia Ford vs Ferrari. Due mentalità che più differenti non potrebbero essere a confronto in un’opera che travalica il senso della competizione automobilistica per divenire sorta di “scontro culturale” all’ultimo, metaforico e non, sangue: da un lato l’imprenditoria seriale statunitense, dall’altro l’alto artigianato italiano, capace di creare un’icona sportiva con mezzi (di natura economica) infinitamente più limitati.
Uno dei primi meriti del film di Mangold è quello di, pur ovviamente privilegiando il punto di vista statunitense, non aver descritto con contorni ridicoli la controparte italiana. Riconoscendo anzi al mitico Enzo Ferrari (ben interpretato dal nostro Remo Girone) una statura nobiliare veritiera ma affatto scontata in opere del genere. Poi, è chiaro, il cuore spettatoriale pulsa in modo inevitabile per i personaggi di Christian Bale e Matt Damon, rispettivamente nei panni del pilota britannico Ken Miles e in quelli di Carroll Shelby, a propria volta ex-pilota con problemi cardiaci e, nel tempo narrato dal film (gli anni Sessanta, appunto) deputato a guidare il team organizzato per sfidare lo strapotere delle Ferrari nelle varie competizioni. Un’autentica guerra, come afferma enfaticamente Henry Ford II, in quel momento a capo della famosa industria a stelle e strisce. E tuttavia non bisogna commettere l’errore di considerare Le Mans ’66 come una semplice lotta manichea tra parti avverse, poiché il film racconta tutt’altro. In primo luogo viene evidenziato al meglio il conflitto tutto interno al modus operandi statunitense, inesorabilmente diviso tra un’organizzazione burocratica quasi di stampo sovietico – molto ironicamente, in piena guerra fredda! – contrapposto a quell’estro individuale che contraddistingue appieno la retorica del paese dalle illimitate opportunità. Tutti sottotesti ben approfonditi in sede di sceneggiatura e che forniscono su un piatto d’argento a Mangold la possibilità di far sfociare il proprio lungometraggio nel campo a lui prediletto (vedere anche il penultimo, splendido, Logan – The Wolverine, film di supereroi del tutto atipico), cioè quello della purissima contaminazione con il genere western e i suoi tratti inconfondibili. L’amicizia virile tra Miles e Shelby, con tanto di lunga scazzottata catartica; i tramonti romantici tra padre e figlio. I duelli in pista in estenuanti gare dalla durata pressoché infinita. Con in più il tocco moderno e magico di pensieri in libertà esplicitati in voice over dal personaggio di Miles, paladino di un mondo in inesorabile via d’estinzione. Le Mans’ 66 – La grande sfida è dunque un’opera che rappresenta una felicissima sintesi tra intrattenimento ad alto tasso spettacolare e slanci d’autore per nulla trascurabili.
Esattamente quello a cui ci ha da sempre abituato – e per buona parte vezzeggiato – il bel cinema classico hollywoodiano. Quel modello che in alcuni frangenti, soprattutto recenti, abbiamo creduto inevitabilmente perduto e che invece risulta sempre in grado di risorgere dalle sue ceneri al pari di un’eterna fenice, sia pure sotto altre spoglie.
Daniele De Angelis