Homo homini lupus
L’esordio del nordirlandese Stephen Fingleton è un’opera di feroce compostezza. Quella compostezza che forse troppo spesso fa rima con freddezza, distanza (eccessiva?) che connota pellicole del “genere post-apocalittico”, al cui centro troviamo un’umanità svuotata, senza più alcuno scrupolo, impegnata a vagare in un pianeta lercio, arido e giunto al termine, il cui unico credo rimasto è la cosiddetta “legge della giungla”.
Queste sono le basi da cui Fingleton parte per mettere in scena l’ennesima storia di sopravvivenza, asciugando all’inverosimile le dinamiche tra i (pochissimi) personaggi, e più ancora i dialoghi (davvero ridotti all’osso: poco più che una manciata di parole vengono pronunciate nell’arco di cento minuti). The Survivalist si adatta appieno al budget piuttosto risicato – non siamo certo di fronte ad una megaproduzione – e si muove sinuoso, ruvido, dotato a tratti di una buona tensione quasi da thriller, per descrivere la convivenza pressoché forzata di tre individui sotto il medesimo tetto.
In un futuro prossimo in cui la crescita della popolazione mondiale sembra inarrestabile, accompagnata dalla decrescita ineluttabile di risorse, la routine di un giovane uomo che vive solo in una capanna, impegnato nella cura quotidiana di un piccolo appezzamento di terra, prende una piega diversa quando due donne (presumibilmente madre e figlia) si palesano davanti ai suoi occhi per chiedergli asilo. L’uomo, dopo un primo momento di forte chiusura, accetta di ospitarle e tutto per un po’ sembra filare liscio…
The Survivalist sfrutta indubbiamente bene questo concept, e tutto è dosato nella giusta maniera ma, come si accennava poco sopra, sembra di essere di fronte all’ennesimo pezzo di cinema dal taglio (iper)minimale (di indubbia potenza a tratti) che tuttavia non riesce a toccare corde inedite, che pare non riuscire a percorrere strade davvero nuove. Tutto è centellinato, saldo alle intenzioni del regista, che fa della ruvidità, a tratti malinconica, la sua arma per descrivere un mondo finito, ben evocato, dominato dal calcolo estremo a da brutali istinti animali.
Antispettacolare per vocazione ed estremo quanto prevedibile nelle conclusioni, la pellicola va avanti per la sua strada con tutti i tòpoi del (presunto) sottogenere al loro posto, ma senza davvero ferire, e ciò che “ci portiamo a casa” non è altro che il solito immaginario post-apocalittico “funzionante”.
Fabrizio Catalani