Gli anni rubati
Per chi conosce i film realizzati da Rithy Panh, in particolare l’ultimo, dolorosissimo e in ogni caso meraviglioso The Missing Picture, la Cambogia evoca subito una ricerca documentaria e più in generale cinematografica, da cui il ricordo del genocidio operato dagli Khmer Rossi emerge con una forza terribile, dirompente. Quasi scontato, quindi, che l’attesissimo esordio al Far East Film Festival 2015 di questa piccola nazione del sud-est asiatico, dal passato recente così tormentato, potesse vantare un legame con gli anni della feroce e disumana dittatura di Pol Pot. Molto meno scontato, in fin dei conti, è che la riuscita del prodotto in questione risultasse così elevata non soltanto dal punto di vista etico, ma anche sotto il profilo estetico: pur non potendo ancora vantare la stessa maturità registica, che si può riscontrare nelle opere del connazionale, il film della cineasta cambogiana Sotho Kulikar è di gran lunga il più bello tra quelli visti finora al festival. Sia per quel pathos genuino e sincero che anima il racconto, sia per una capacità di strutturare la narrazione in modo tale che le differenti stratificazioni di senso, comprendenti anche un’appassionata traccia meta-cinematografica, vi si adagino con naturalezza.
In The Last Reel vi è inoltre grande sensibilità nel far dialogare tra loro, attraverso un plot molto ben concepito, generazioni successive su cui le memorie dello svuotamento forzato di Phnom Penh, dei campi di sterminio, delle torture, delle innumerevoli famiglie distrutte, si ripercuotono ovviamente in misura diversa. Ci sono i sopravvissuti che tali orrori li hanno sperimentati sulla loro stessa pelle e su quella dei propri cari. C’è chi invece stava dall’altra parte della barricata e ha magari contribuito, nelle vesti di secondino al seguito degli Khmer Rossi, alla realizzazione di un simile massacro. E ci sono poi le nuove generazioni, che solo saltuariamente si interrogano su quanto capitò alle rispettive famiglie, agevolati in questo dall’omertà o da una oggettiva difficoltà emotiva, nel rievocare i tragici fatti in cui furono coinvolti gli adulti che li circondano.
L’esistenza un po’ scapestrata della giovanissima Sophoun nella Cambogia di oggi diventa così il primo passo di un viaggio nella memoria collettiva del proprio popolo, in cui la personale ricerca della ragazza, dal sapore introspettivo (e anche retrospettivo), frutta due scoperte inaspettate: da un lato la consapevolezza finalmente piena delle terrificanti sofferenze fisiche e psicologiche cui andò incontro la madre, negli anni di una Kampuchea Democratica che pretese la deportazione in massa degli abitanti della capitale, verso quei disumani campi di lavoro dislocati nelle campagne o ai margini della foresta; dall’altro il precedente ricordo di una “golden age” del cinema cambogiano, cui il regime pose brutalmente fine. Sì, perché nel corso di The Last Reel si viene a sapere che sia la madre di Sophoun che altri personaggi a lei legati avevano partecipato alla realizzazione di quei lungometraggi, intimamente legati alla cultura locale, la cui aura leggendaria sembra riecheggiare ancora nella sala cinematografica semi-abbandonata che fa da perno alla narrazione. Ed è pertanto ancora più forte l’impatto emotivo della parte finale, in cui il recupero delle “immagini mancanti” (pure qui il cinema di Rithy Panh fa da ottimo contrappunto) di una vecchia pellicola, creduta persa, assume un valore importantissimo nel riappropriarsi del “rimosso”; preludendo inoltre al dolentissimo ricordo nei titoli di coda dei tanti artisti cinematografici cambogiani massacrati dai Khmer Rossi, in quanto ritenuti scomodi, pericolosi o semplicemente inutili, per la sopravvivenza di una regime così truce e barbarico come quello di Pol Pot.
Stefano Coccia