Delitto e fin troppi in castigo
Sin dall’antichità l’obbligo morale che consiste nell’assicurare una sepoltura ai morti, specie nell’ambito della famiglia, è tra i più seri presupposti della tragedia: ce lo insegna l’Antigone di Sofocle, lei in lotta contro disposizioni inique volute da uomini. «A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi.»
Con The Dig di Ryan ed Andrew Tohill, l’aura tragica si sposta ai giorni nostri in Irlanda del Nord, assieme a un cadavere mai ritrovato e ad altre circostanze, ugualmente cupe, che annunciano gli sviluppi poco felici di un crudo thriller psicologico. Protagonista della vicenda è uno sconsolato Moe Dunford (l’attore più gettonato di questa dodicesima edizione dell’Irish Film Festa, che lo ha visto presente in ben quattro pellicole) ovvero Ronan Callahan, accusato a suo tempo di un omicidio per cui si è sempre dichiarato innocente e da poco rientrato in paese, dopo svariati anni di prigione. Vi è però un’altra brutta sorpresa ad attenderlo: nei terreni paludosi che circondano la sua fatiscente fattoria si è intanto insediato Sean (un intenso Lorcan Cranitch), il padre della sua presunta vittima. Emulo a modo suo di Antigone, scava da anni in quelle distese di terriccio umido perché è convinto della colpevolezza di Callahan e vorrebbe ritrovare il corpo della figlia, apparentemente scomparso nel nulla, per darle almeno degna sepoltura. A completare il poco ameno quadretto la sorella della ragazza scomparsa, che da giovanissima pare sia stata in intimità con lo stesso Callahan, ed un rude poliziotto locale, deciso a ribadire il suo ruolo di garante della comunità attraverso quei sistemi, brutali all’occorrenza, che sente più congeniali.
Tali personaggi si muovono nella grigia campagna circostante come in una pièce teatrale, legando le proprie paranoie al cielo plumbeo e ai paesaggi stagnanti, un’ambientazione così sordida e opprimente (al pari dei pochi luoghi di ritrovo del loro piccolo villaggio) da ispirare ancor meno fiducia nel prossimo. Soffocante kammerspiel da palude. Mentre il caso si sviluppa in direzioni sempre più inquietanti, l’abilità maggiore dei fratelli Tohill è nel costruire quelle atmosfere spesse, il cui timbro severo e angosciante si trasferisce con naturalezza nel retroterra “dostoevskiano” di psicologie fortemente turbate. Una sorta di “delitto e castigo” collettivo che avvelena l’aria.
Se il mood è convincente, gli interpreti pure, sono invece i meandri di una sceneggiatura fin troppo compiaciuta a lasciare qualche perplessità. Più in particolare, sono gli elementi prettamente di genere, quelli di marca noir, ad essere inseriti nel plot di The Dig con uno schematismo e con una meccanicità che finiscono per sottrarre mordente alla storia. A lunghi momenti contemplativi, finanche un po’ ripetitivi, seguono svolte improvvise e altrettanto repentine “illuminazioni”, che i personaggi del racconto sembrano affrontare con estrema disinvoltura finendo però col disorientare lo spettatore. E così lo stesso epilogo, vista la scelta radicale compiuta dai protagonisti, rischia di configurarsi quale scialba lezioncina morale, tesa peraltro a forzare la condizione psicologica dei personaggi coinvolti.
Stefano Coccia