Il conflitto generazionale passa anche dagli androidi
Ultimo giorno di ECU – The European Indipendent Film Festival, a chiudere una XV° edizione, ribattezzata la “Confinement Edition”. Proiettata interamente in streaming, la kermesse si è rivelata un ottimo esperimento organizzativo in tempi di Coronavirus, oltre che una interessantissima vetrina.
Tra i cortometraggi presentati durante il pomeriggio precedente la premiazione, è sembrato originale e di ottimo livello The Chef, del regista Hao Zheng.
Un ristorante cinese sembra essere nei guai. Ciononostante il suo capocuoco, il signor Pu (Jim Lau), continua con grande passione ad amare il suo mestiere e cerca di trasmettere il suo sapere al giovane Qiang (Allen Theosky Rowe). Si tratta sì di cucinare, ma Pu la vede giustamente come una forma d’arte, in cui ogni cosa è importante: l’attenzione al dettaglio, i gesti, i passaggi da eseguire con meticolosità durante la preparazione dei cibi. Il suo apprendista, però, non sembra avere la stessa passione per le minuzie e pare ricevere gli insegnamenti di Pu più per continuare a lavorare che per il reale desiderio di eguagliare il suo maestro. Il proprietario del ristorante, un giorno, presenta a tutti William, una persona il cui semplice apparire crea grandi perplessità se non ostilità. Sul momento il motivo di questa forte reazione sembra essere l’aspetto di William (Quinn Von Hoene), che non è asiatico ed è anzi di razza bianca, dall’aria gioviale, alto e dai bei lineamenti. Il contrario degli scontrosi ragazzi che lavorano nel buio delle cucine. Anche il signor Pu sente il bisogno di parlarne apertamente con il suo direttore, sebbene non di fronte agli altri. A lui, molto francamente, viene spiegato che il ristorante è in difficoltà e che senza l’aiuto di una di quelle “cose” il pericolo di una chiusura definitiva è imminente. L’arcano è dunque svelato: William è un androide. E, a quanto pare, questi fedeli servitori stanno prendendo il loro posto nella società degli uomini, non senza creare notevoli attriti con gruppi di facinorosi che reagiscono ai robot, anche con violenza. Il timore, che serpeggia non solo nell’opinione pubblica al di fuori ma anche nel ristorante, è che gli umani possano presto essere sostituiti dai loro più efficienti simulacri. La diffidenza di Pu ha le sue ragioni e in fondo per un artista come lui, che parla orgogliosamente dei suoi maestri, la cucina (soprattutto cinese) non è cosa da macchine, bensì una questione di intuito, ispirazione, percezione di profumi e fantasia. Nonostante questo, suo malgrado, prende ad insegnare a William tutto quello che sa e, col tempo, l’androide si guadagna un’inaspettata ma meritata fiducia perché, al contrario di Qiang, ascolta con attenzione, è preciso e apprende correttamente e velocemente i gesti di Pu, maturando notevolissime capacità. Naturalmente, il rabbioso apprendista, già poco incline alla pazienza, si vede scavalcato e tradito e, pur non meritevole delle attenzioni di Pu, spaventato e geloso inizia a covare un suo pericoloso rancore nei confronti di William.
Il racconto di Zheng, sceneggiato da Ithaca Deng e Leqi Vanessa Kong, è una versione del tutto peculiare dello scontro fra l’uomo e il robot, una storia che ci mostra un mondo lontano nel futuro, ma solo nelle fratture sociali, non certo nella quotidianità. Spesso questo genere di vicende ci illustra il potenziale conflitto fra l’umanità e i suoi figli artificiali in termini polizieschi, politici o industriali, mettendo in scena trame che coinvolgono potenti finanzieri, grandi e visionari uomini d’affari o infallibili agenti alle prese con le bizze dei sintetici. In questo breve film non è così: l’attenzione si sposta fra la gente comune, tra le attività di tutti i giorni, come è quella di un semplice ristorante. William non ha nessuna aggressività, ha una personalità pacifica, inoffensiva e del tutto disposta a prestare il suo servizio nel migliore dei modi. Non c’è alcun pericolo, neanche latente, che questo androide sembra presentare, semmai sono gli uomini in carne ed ossa, soprattutto i giovani, ad esserlo. Appaiono inetti, invidiosi e incapaci di desiderare un reale avanzamento delle loro abilità. Una sorta di strappo generazionale (più attuale di quello sembra) di chi in passato ha saputo lavorare sodo e apprendere e che ora, di fronte alle nuova leve che preferiscono fare il minimo indispensabile per avere tutto e subito, guarda con simpatia agli androidi che sembrano dimostrare buone qualità ormai sempre meno comuni. Ma non è così semplice vivere in un mondo del genere e, probabilmente, gli umani hanno perso davvero il loro desiderio di migliorarsi e andare avanti, preferendo odiare e aggredire quelli che, oltre ad imparare più in fretta, cominciano ad avere anche qualcosa da insegnare a chi li ha creati. E forse, incapaci di reagire, potrebbero essere proprio quest’ultimi a soccombere.
Massimo Brigandì