Vivere insieme la “dolce attesa”
Il termine ‘attesa’, all’interno di questo articolo, assumerà per forza di cose accezioni assai differenti tra loro. In Tempo d’attesa, documentario di Claudia Brignone insignito anche del Premio Speciale della Giuria al Festival di Torino 2023, il fulcro del discorso è rappresentato naturalmente da ciò che viene ancora oggi definito “dolce attesa”, ovvero i mesi precedenti la maternità; periodo importante, difficile e delicato, che l’autrice ha saputo portare sullo schermo con una sensibilità fuori dal comune, con una naturalezza solo apparentemente priva di filtri, poiché se a tratti la macchina da presa sembra quasi scomparire è proprio per la grazia e la consapevolezza con cui è stata usata. Sicché tale realtà si rivela allo spettatore attraverso uno sguardo puro, diretto, empatico, rivolto al profilmico con grande partecipazione emotiva sia come regista che come donna, dato che un anno prima di iniziare le riprese e filmare le altre la stessa Claudia Brignone aveva portato a termine una gravidanza.
L’uso invece più “frivolo” della parola ‘attesa’ è quello che faremo noi adesso, considerando che alla proiezione del documentario abbiamo assistito al Cinema Greenwich di Roma, teatro di una bella iniziativa incentrata sul cosiddetto “cinema del reale” e intitolata Solo di Martedì, per l’appunto martedì 5 novembre. Nonostante la visione ci abbia parecchio colpito, coinvolto, sono passate quindi un po’ di settimane prima che potessimo scriverne, il che si deve più che altro alla “bulimica” offerta cinefila che la Capitale offre tra ottobre e novembre, impegnando la stampa stessa con una miriade di anteprime, rassegne, festival più o meno grandi. Si può pertanto dire che vi sia stato un lungo “tempo d’attesa”… anche prima che noialtri ‘partorissimo’ codesto articolo! E dopo questa uscita da avanspettacolo, possiamo tornare alle cose serie.
Circumnavigando magari con il lettore una filmografia breve ma già degna di nota. A un’opera come Tempo d’attesa, che l’ha messa in gioco in modo ancora più personale, una cineasta giovane come Claudia Brignone ci è difatti arrivata attraverso esperienze registiche di grande spessore, sia umano che etico, confluite nella realizzazione di due documentari parimenti ambientati in Campania, la sua terra d’origine; dietro entrambi i lavori cinematografici, ossia La malattia del desiderio (2014) e La villa (2019), oltre alla volontà di documentare contesti antropologi difficili pareva di scorgere una prossimità al reale destinata ad assottigliarsi sempre di più; tant’è che in Tempo d’attesa una simile linea di demarcazione è praticamente svanita. Ma è forse a La villa che questo suo nuovo film, almeno epidermicamente, assomiglia di più, quantomeno per l’attenzione rivolta ad ambienti esterni ripresi sovente nella loro funzione comunitaria.
Così nel precedente documentario ambientato a Scampia l’orizzonte degli eventi era rappresentato proprio da quel parco, utilizzato da volenterose associazioni per offrire alternative di vario genere ai residenti, cui non vengono purtroppo lasciate molte vie di fuga, rispetto al degrado sociale così spesso associato al quartiere. Spazi verdi, spazi aperti, sono anche quelli in cui tendono a riunirsi le donne incinte assistite amorevolmente da Teresa De Pascale, ostetrica e fondatrice dell’associazione Terra Prena, che le accompagna fino al parto non limitandosi ad offrire loro saggi consigli e pratiche di vita sane, ma facendole vivere in una dimensione collettiva, comunitaria come si diceva poc’anzi, in cui sono la solidarietà femminile e un confronto libero e aperto ad armonizzare il gruppo.
Dal come vivere insieme i mesi che precedono il parto la testimonianza audiovisiva di Claudia Brignone conduce poi a singole esperienze, approcciate con un senso di intimità mai forzato, come pure a quei racconti che sono frutto della lunga esperienza di Teresa, la quale era peraltro presente alla proiezione romana del 5 novembre; e oltre ad arricchire il Q&A con la cineasta campana di sapidi aneddoti, l’anziana ed esperta ostetrica ha fatto interessanti dichiarazioni, anche su come venga fatta vivere male la maternità alle donne in certe strutture ospedaliere. Pure questo è un argomento da approfondire, in sede cinematografica e non, specie se si considerano da un lato i duri colpi inferti alla sanità pubblica negli ultimi decenni, cosa che un documentario come C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando di Federico Greco e Mirko Melchiorre ha fatto emergere prepotentemente, sia le direttive folli e tante altre oscenità cui abbiamo dovuto assistere in campo medico, dal 2020 in poi.
Stefano Coccia