Cartoline dall’Inferno
Lo scorso 15 novembre al MAXXI di Roma, nell’ambito del MedFilm Festival, è stato proiettato un film collettivo che rappresenta forse una delle poche visioni necessarie, nel panorama contemporaneo, se si desidera intravvedere almeno un raggio di luce in fondo al tunnel di oscurantismo, violenza e assoluto disprezzo della vita umana cui purtroppo le attuali geopolitiche sembrano averci relegato, anzi, condannato.
Anche perché il lungometraggio in questione (che si intitola From Ground Zero ed è costituito in realtà da ben 22 corti assemblati tra loro) proviene dal peggior Inferno spalancatosi ora sulla Terra, nell’indifferenza di tanti e soprattutto di quelle istituzioni internazionali – ridotte ormai a squallida parodia di ciò che è già stata la Società delle Nazioni tra le due guerre mondiali – che dovrebbero vigilare, affinché tragedie del genere vengano impedite a prescindere o almeno indirizzate nel più breve tempo possibile verso una soluzione pacifica; parliamo naturalmente della Striscia di Gaza, resa oggetto da mesi di quella che non può essere nemmeno considerata da parte di Israele una classica operazione militare, bensì un massacro indiscriminato dal cielo, di cui a farne le spese sono principalmente civili indifesi ridotti ormai come topi in trappola.
Permetteteci poi una nota polemica, della quale ci assumiamo ovviamente qualsiasi responsabilità di ordine morale, ma mentre alle ultime Olimpiadi è stato impedito di gareggiare sotto la propria bandiera agli atleti russi e bielorussi, le cui nazioni vengono ritenute (a torto o a ragione) responsabili di una controversia internazionale in cui sono comunque eserciti regolari a fronteggiarsi sul campo, la ben più grave rappresaglia armata compiuta da Israele (che per alcuni, tra i quali ci schieriamo senz’altro anche noi, rasenta le dimensioni e le modalità stesse del genocidio) non ha subito alcun provvedimento disciplinare, tant’è che gli atleti israeliani hanno potuto “serenamente” festeggiare le loro medaglie e in caso di vittoria ascoltare il proprio inno, a Parigi. Una politica dei due pesi e due misure, che ai nostri occhi fa apparire quelle medaglie macchiate di sangue.
Tornando al cinema, terreno che ci compete più da vicino, From Ground Zero è una raccolta di cortometraggi avviata e supervisionata a Gaza dal cineasta palestinese Rashid Masharawi, divenutone quindi produttore, in risposta al devastante e sanguinario attacco militare israeliano che ha fatto seguito agli attentati di Hamas del 7 ottobre 2023. Tale progetto cinematografico, la cui valenza etica, politica e sociale non necessita forse di ulteriori sottolineature, ha portato così a quell’opera collettiva composta da 22 corti di autori diversi, che è anche il film palestinese destinato a concorrere agli Oscar nel 2025.
Varrebbe quasi la pena di analizzarli uno per uno, i lavori in questione, perché tutti quanti, sia quelli più strutturati che quelli all’apparenza più grezzi, hanno saputo non solo testimoniare una realtà tanto opprimente, ma anche trasfigurarla rendendo universali dolore, aspettative, ricerca di un’umanità perduta o per meglio dire sottratta da altri. Qualcuno forse parlerà a tal proposito di “resilienza”, ma un simile termine oggi così in voga a noi piace poco, poiché dà l’idea di un’accettazione passiva dell’ingiustizia, laddove essa andrebbe invece contrastata con tutte le forze; e seppur a tratti disperato, amareggiato, carico di orrori indicibili, quello che abbiamo riscontrato in From Ground Zero è semmai un vitalismo che prende alla gola lo spettatore.
Ad accomunare gran parte dei cortometraggi raccolti è la brusca interruzione della normalità. In un tetro paesaggio di macerie, quale si presenta oggi una Gaza bombardata selvaggiamente dagli israeliani, tutto ciò che in paesi come il nostro tendiamo a dare per scontato non esiste più, nella forma che aveva prima: l’istruzione, l’accesso all’acqua corrente, le scorte di cibo, gli eventi teatrali, il cinema, la sicurezza d’andare a dormire senza essere svegliati dalle bombe e dalla casa che crolla, tutto questo a Gaza è ormai una chimera. E commuove profondamente la molteplicità di risvolti che hanno saputo cogliere ed esprimere per immagini, coloro che hanno contribuito alla realizzazione dei corti.
Davvero tanti i ritratti umani memorabili. Emblematico che ad aprire le danze sia un breve capitolo, intitolato Selfies e firmato da Reema Mahmoud, la cui cruda testimonianza della vita nei campi profughi viene concepita anche, letteralmente, come “messaggio nella bottiglia” da affidare alle onde affinché raggiunga le altre sponde del Mediterraneo, quasi un monito rivolto a chi dalla guerra non è stato (ancora) toccato. Già, perché come viene ricordato in un altro corto il mare di fronte a Gaza è probabilmente l’unico orizzonte libero, su cui lo sguardo possa poggiarsi e parzialmente rasserenarsi.
Persino più vibrante è Sorry Cinema di Ahmed Hassouna, con le simboliche scuse all’amata settima arte da parte di un autore che dell’ottimo cinema di finzione, premiato anche ai festival, era pur riuscito a farlo nonostante le oggettive difficoltà già presenti nel recente passato, ma che oggi come oggi può soltanto documentare la propria triste realtà, considerando che negli ultimi mesi la lotta per la sopravvivenza è diventata ogni giorno più difficile, per lui come per molti altri ancora. Sempre in ambito artistico, come dimenticare lo stand-up comedian amante dei gatti di Everything is Fine, il corto di Nidal Damo in cui l’artista non può più andare nel teatro o club dove si esibiva, poiché purtroppo si trovava nel quartiere raso al suolo dai bombardamenti, per cui allora decide di esibirsi tra gli sfollati e le tende da campo? Oppure Charm di Bashar Al Balbisi, uno dei lavori più belli visivamente, in cui la musica e le danze tradizionali alimentano i sogni di una bambina?
Troppi altri nomi dovremmo fare, troppi altri cortometraggi ci sarebbero da citare. Per brevità passeremo sopra altre storie a volo d’uccello, sempre meglio che passarci sopra coi bombardieri come fanno i sionisti, giusto per segnalare altri brevi filmati che hanno di volta in volta quali protagonisti un anziano professore che cerca di salvare un po’ di dignità, anche nella vita piena di stenti del campo profughi; oppure quei bambini cui vengono insegnate rudimentali ma estremamente poetiche tecniche di animazione, per raccontare ed esorcizzare il dramma che stanno subendo; oppure, anche qui l’approccio meta-linguistico non è freddo ma emana tanto calore umano, la sofferenza di una famiglia palestinese espressa attraverso le marionette.
Non aggiungiamo altro, chiunque avrà modo di vedere il film si immerga liberamente nel flusso dei vari racconti, così da capire e soprattutto sentire la portata della tragedia in atto.
Stefano Coccia