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Tangerines – Mandarini

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VOTO: 7.5

Tregua armata

Grazie a strategie distributive d’impronta decisamente cinefila, la P.F.A. Films sta portando ora nelle sale un lungometraggio che aveva beneficiato della candidatura, nel 2015, tanto ai Golden Globes che all’Oscar per il Miglior Film Straniero. I cinema che in Italia lo proietteranno non saranno certo tantissimi. Ma se ne beccate uno nelle vicinanze, non lasciatevi sfuggire l’occasione di far visita a Tangerines – Mandarini del georgiano Zaza Urushadze, poiché si tratta di una vera e propria chiccha.

Frutto di una co-produzione tra Georgia ed Estonia (e il dipanarsi del racconto chiarirà ulteriormente, tramite le etnie dei personaggi coinvolti, il perché di questa scelta), nel rievocare cruenti scenari bellici Tangerines – Mandarini può ricordare da un lato lo spirito anti-militarista espresso nei Balcani dal primo Tanović; quello di No Man’s Land (2001), per intenderci, anche se poi il successivo e maggiormente “globalizzato” Triage (2009) sembrò indicare, almeno nelle intenzioni, una rotta simile. D’altro canto quella realizzata da Urushadze è un’opera che va inquadrata anche in un altro contesto, più prossimo a essa, ovvero il risveglio tutto sommato recente del cinema georgiano.
Forte di una tradizione cinematografica di prim’ordine, solo negli ultimi anni l’orgogliosa nazione caucasica ha cominciato a riproporre sul grande schermo, in modo maturo, certe pagine oltremodo dolorose del suo recente passato. E il sanguinoso conflitto interno che portò di fatto alla secessione dell’Abkhazia rientra senz’altro tra queste. Finora erano stati soprattutto i documentari a riportarne, da angolazioni diverse, le così tragiche conseguenze sulla popolazione: dai piccoli ma significativi accenni presentati “a caldo” nel monumentale Seule, Georgie (1994) di Otar Iosseliani, fino al più recente Internat (2014) dell’italiano Maurilio Mangano, dove sono proprio gli esuli di tale conflitto a raccontarsi e a raccontare la mestizia della loro condizione odierna. Al momento, però, è anche il cinema di finzione ad approcciare l’argomento, esibendo peraltro un certo spessore: ne è una riprova lo splendido Corn Island (2014) di George Ovashvili, riuscito nel miracolo di coniugare il carattere universale della narrazione, nonché un accentuato lirismo di fondo, con la particolarità delle coordinate storiche e geografiche.

Se in Corn Island si sfiora addirittura il capolavoro, la poetica di Tangerines – Mandarini staziona comunque a livelli di eccellenza. Vediamo quattro personaggi, due teoricamente “neutrali (in quanto di origine estone), due dichiaratamente nemici (un giovane militare georgiano e un più esperto mercenario ceceno, tra i tanti giunti fin lì ad appoggiare la causa dell’Abkhazia), confrontarsi ora con toni di sfida e ora con una ritrovata pacatezza nella dimora agricola (è una zona coltivata, per l’appunto, a mandarini) di uno degli estoni, che dopo aver assistito all’iniziale e cruento scontro a fuoco si è preso cura assieme all’amico dei due soldati feriti, imponendo loro una specie di tregua. In principio si percepisce diffidenza e ostilità tra gli “ospiti”, i quali, però, cominceranno poco alla volta a conoscersi meglio. E magari anche a rispettarsi. Quella che si respira nel film e perciò un’atmosfera per molti versi paragonabile a quella dei più bei romanzi di Mario Rigoni Stern, da Storia di Tönle a Il sergente nella neve, racconti intrisi di “pietas” in cui la saggezza di pochi uomini riesce a prevalere, fosse pure per un tempo breve, limitato, sull’insensatezza e sulla crudeltà della guerra.
Interpretato da attori magnifici, credibile e sufficientemente crudo anche nelle rare scene di combattimento, attentissimo alla peculiarità dell’ambientazione, quello che Zaza Urushadze offre è un esempio, pregevole, di cinema dai marcati contorni umanisti, che merita in assoluto di essere scoperto e valorizzato.

Stefano Coccia

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