Nessun contatto
Sono corpi che riempiono prepotentemente lo schermo quelli di Marco Berger, corpi spiati e contemplati che monopolizzano l’inquadratura, scatenando passioni sempre a un passo dall’essere frustrate. É un cinema che pare ricolmo di desiderio, di amori suggeriti e mai urlati, quello del regista argentino che con Taekwondo – girato in coppia con il direttore della fotografia Martìn Farina – non fa che portare al massimo grado di astrazione la propria poetica, condensando in poco meno di due ore tutte le sue ossessioni.
Quando il timido German viene invitato dal suo compagno di taekwondo Fernando nella sua casa con piscina, a trascorrere, insieme a lui e agli amici di una vita, qualche giorno di vacanza, è subito chiaro che il regista vuole continuare il discorso cominciato con Hawaii (2013) e con le sue lente e sospirate rivelazioni amorose, asciugandolo, però, fino all’estremizzazione, alla ricerca di un’essenzialità che trova nello sguardo dell’autore, così come in quello dei suoi personaggi, tutta la sua forza estetizzante.
Il risultato è un gioco all’insegna di un’amicizia (più o meno) virile, dove i confini (e i gusti sessuali) si confondono e si sfaldano, facendo emergere rancori, insicurezze e invidie, mentre amori, a poco a poco, mettono radici e passioni improvvise si consumano rapide come sono iniziate.
Tra scherzi, spirito cameratesco, passioni clandestine e timidi, estenuanti corteggiamenti dove ogni vero contatto pare bandito (“non combattiamo mai insieme, ci alleniamo solo”, spiega German), la macchina da presa spia i suoi protagonisti in un trionfo di voyeurismo che rispecchia i loro più intimi desideri, facendo del corpo (maschile) il manifesto di un’intera poetica.
La bellezza e la perfezione stanno allora nel dettaglio in Taekwondo, un dettaglio che spezza la linearità della narrazione in favore di un eterno presente, emblema di un cinema che vive di frammenti e di corpi scomposti e ricomposti dal desiderio, dal sogno di un sentimento sempre a un passo dalla realizzazione.
Un cinema inevitabilmente astratto che (si) contempla fino all’esasperazione o, almeno, fino a quando – dopo averci fatto perdere ogni speranza – non giunge, liberatorio, l’amore.
Mattia Caruso