Amore nemico
Sin dalle premesse, Suite francese è un film che nasce sul filo di un paradosso con qualcosa di evidentemente “stonato”. Tratto dall’omonimo best seller postumo – dalla storia assai più appassionante del film in questione – di Irène Némirovsky, l’opera cinematografica ne conserva l’ambientazione geografica e temporale, cioè la Francia occupata dalle truppe naziste nel 1940. Desta allora più di una qualche perplessità il fatto che il cast sia composto da interpreti americani (Michelle Williams), britannici come il regista Saul Dibb (Kristin Scott Thomas, Sam Riley), belgi (Matthias Schoenaerts) e addirittura australiani come la stellina in rampa di lancio Margot Robbie. Nessuno di loro, ovviamente, sfoggia il benché minimo accento francese, ma anzi recitano in un fluentissimo inglese con accenti differenti, intervallato da parentesi tedesche (almeno quello…) quando ad esprimersi sono i terribili soldati di Hitler. Suscitando in chi guarda una sensazione a dir poco straniante, considerando che la bravura e l’affidabilità del cast è da considerare l’elemento portante del film. Del resto sappiamo che il cinema può questo e altro; tuttavia, nello specifico caso, la ciambella è riuscita priva del classico buco, e non certo per responsabilità degli interpreti ma proprio del classico modus operandi da coproduzione internazionale che prevede la standardizzazione massima del prodotto come primissimo requisito essenziale.
Saul Dibb – che già aveva tentato, con un certo successo, di iniettare modernità nel suo precedente, settecentesco, La duchessa (2008) – ritenta l’operazione con Suite Francese, raccontando ancora un ritratto femminile in forte anticipo sui tempi. Tutto bene, dunque? Nelle intenzioni certamente sì, mentre il risultato finale lascia un po’ di amaro in bocca per la prevedibilità che permea il tutto. L’opera terza di Dibb tiene bene fin quando, attenendosi fedelmente al romanzo, si mantiene su registri descrittivi, inanellando caratteri e situazioni sempre più brutali causa l’arrivo del conflitto nella campagna fuori Parigi. Poi, quando si tratta di arrivare al dunque dell’impossibile storia d’amore tra la francese Lucile Angellier ed il tenente tedesco Bruno von Falk, l’insieme si smarrisce in un susseguirsi di luoghi comuni, nonostante il talento purissimo di Michelle Williams (soprattutto) e Matthias Schoenaerts. Quello che manca, per infiammare il film della passione melodrammatica necessaria, è proprio il travaglio dei due amanti alle prese con una situazione enormemente più grande di loro. Tutto rimane in superficie, sospeso nel limbo di un cinema abilissimo nel rendersi ammirabile in ogni sua singola componente tecnica ma in compenso incapace di prendersi le dovute libertà a livello narrativo, sino a condurre il film nei territori inesplorati e misteriosi dell’attrazione irresistibile. A peggiorare le cose poi la discutibile scelta – anche questa presumibilmente dettata da un’adesione rispettosa al testo di partenza – di utilizzare il personaggio di Lucile come io narrante, tentando perciò di esplicitare verbalmente l’impossibile, ovvero quelle emozioni che sarebbero dovute rimanere accuratamente tra le pieghe del racconto, affidate all’immaginazione del pubblico. L’effetto è, nel migliore dei casi, ridondante; mentre nel peggiore sfiora il ridicolo involontario, con la povera protagonista che pare spesso alle prese con una sorta di auto-analisi permanente.
Suite francese risulta così alla fine un’opera decisamente calibrata nelle prerogative di partenza – cast in primo luogo, anche se Kristin Scott Thomas rischia la maniera nel replicare frequentemente la donna di mezz’età inacidita dalla vita – ma che manca il bersaglio proprio nell’obiettivo che si era prefissato. Quello cioè di mettere in scena un sentimento capace di travolgere ogni convenzione e barriera in un momento storico particolarmente delicato. Se, come annuncia con enfasi un tantino eccessiva la frase di lancio del film, Suite francese dovrebbe essere “la più grande storia d’amore mai raccontata” (al cinema, si suppone), allora tutto il prolifico sottogenere sentimentale in tempi bellici dovrebbe subire un brusco ridimensionamento, a partire dal venerando e inimitabile Via col vento (1939) di Victor Fleming. In tutta sincerità non ci pare possibile….
Daniele De Angelis