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Strane straniere

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VOTO: 6.5

Strani mondi sconosciuti

Che il crescente fenomeno dell’immigrazione abbia sollevato parecchie questioni, oltre, come era prevedibile, a non pochi facili populismi, ormai è cosa risaputa. Senza contare che il triste inizio dell’era Trump ha ulteriormente contribuito ad attizzare il fuoco in merito. Al punto da rendere un documentario come Strane straniere, diretto dalla giovane regista Elisa Amoruso, un prodotto quasi necessario. Almeno ad una prima scorsa della sinossi. Ed ecco che, ancora una volta, la cineasta romana sceglie di raccontarci delle realtà a noi sì vicine, ma che, di fatto, nessuno ha avuto modo di osservare fino in fondo (operazione, questa, già attuata in Fuoristrada, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2013 – dove ci è stata raccontata la storia di un meccanico romano che ha deciso di vivere in un corpo di donna – nonché sua opera prima, grazie alla quale ha ottenuto grande attenzione da parte di pubblico e critica). In questo suo secondo documentario, tuttavia, ciò che ci viene mostrato non è un’unica realtà, bensì tanti mondi diversi, tante storie di donne che, in un modo o nell’altro, ognuna con un diverso passato alle spalle, sono riuscite a trovare una propria dimensione lontano da casa.
Sono queste le storie di Radoslava – che ha scoperto una grandissima passione per la pesca – di Sihem – direttrice di un centro accoglienza anziani – di Ana e Ljuba – titolari di una galleria d’arte nel cuore di Roma – e, infine, di Sonia – proprietaria di uno dei più rinomati ristoranti cinesi della Capitale. Tante storie, dunque, per tante diverse – e bellissime! – personalità. Conoscere meglio ognuna di queste coraggiose donne al fine di superare eventuali inutili pregiudizi è la principale finalità di questo lavoro della Amoruso, il quale, a sua volta, prende vita da un progetto a carattere prettamente antropologico portato avanti da Maria Antonietta Mariani.
Se un documentario come Fuoristrada, dunque, ha saputo colpire nei punti giusti, lo stesso ci si sarebbe aspettato da Strane straniere, il quale mostra, a sua volta, come lo stile di una cineasta come la Amoruso stia, in un modo o nell’altro, assumendo una propria, certa identità. Da un punto di vista prettamente cinematografico, infatti, è evidente come ci sia stata qui una più approfondita ricerca estetica: è questo il momento, quindi, in cui simmetrici plongés ed intensi primi piani, che seguono l’immagine – in apertura del film – di una cantante lirica intenta ad intonare l’aria “Un bel di’ vedremo” dalla Madama Butterfly di Puccini, si uniscono ad immagini poetiche ed evocative in cui variopinte lanterne cinesi si stagliano nel cielo di notte. Per il resto del documentario, scene di vita quotidiana, con le sole voci fuori campo delle dirette interessate a raccontarci il loro passato. Indubbiamente, si tratta di una messa in scena raffinata e meticolosamente studiata. La questione, qui, però è un’altra: pur tenendo in conto l’efficacia sia contenutistica che narrativa di entrambi i lavori, bisogna forse riconoscere che, malgrado una messa in scena maggiormente “rudimentale” (o forse proprio grazie ad essa), Fuoristrada godeva indubbiamente di una maggiore genuinità, di una certa – e necessaria – spontaneità che sembra, al contrario, forse un po’ troppo debole in Strane straniere. Tutto farebbe pensare ad un’eccessiva preoccupazione riguardante l’estetica del prodotto, all’interno del quale, però, sarebbero stati indubbiamente interessanti ulteriori approfondimenti circa le vite delle protagoniste stesse, dalle quali, in fin dei conti, ci sentiamo affascinati e delle quali vorremmo sapere, se possibile, sempre di più. Una messa in scena, dunque, che si discosta non poco dal precedente lavoro. Segno, probabilmente, che lo stile di Elisa Amoruso sta sì maturando, ma che, per spiccare un ulteriore (e, forse, definitivo) salto in alto, ha ancora bisogno di affinarsi ulteriormente, senza prediligere un aspetto, piuttosto che un altro. Alla luce di quanto visto finora, comunque, le buone premesse sembrano esserci tutte.

Marina Pavido

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