Gruppo di famiglia con eutanasia
Lo “schema” per girare un buon film – a maggior ragione quando ci si chiama Bille August e si gode, tutt’altro che a torto, di cattiva fama in quanto considerato autore abusivo unicamente in virtù dei molteplici premi vinti in carriera – in fondo è alla fine piuttosto semplice. Mettere da parte l’aura di (presunto) cineasta di spicco per affidarsi interamente alla bontà della storia e soprattutto ad un gruppo di interpreti affiatati ed in stato di grazia. Questo accade in Silent Heart (Stille hjerte nell’originale) ultima fatica, datata 2014, del regista scandinavo presentata nell’ambito nell’edizione 2016 del Nordic Film Fest a Roma.
La trama, non particolarmente brillante per originalità, vede riunirsi per un ultimo fine settimana la famiglia di Esther, malata di sindrome laterale amiotrofica (la terribile SLA, che ha colpito negli ultimi anni molti calciatori) e determinata a ricorrere, con il supporto anche morale del marito medico, all’eutanasia per prevenire il peggioramento della malattia con sofferenze annesse. Accorrono dunque al suo simbolico capezzale le due figlie, Heidi e Sanne, la prima con famiglia al seguito mentre la seconda, più giovane ed instabile, con un compagno che porterà un ventata di sano anticonformismo in un ambiente comprensibilmente tendente al depresso. Della compagnia fa parte anche l’amica del cuore di Esther, Lisbeth. Inutile pensare però ad una resa dei conti famigliare densa di colpi di scena in stile Festen (1998) di Thomas Vinterberg: Silent Heart possiede il sorprendente pregio del sottotono, quella capacità di far emergere l’essenza dei personaggi attraverso la parola e il non detto, senza dover ricorrere ad una sovraeccitata esibizione di regia ed un incontrollato overacting. Una sceneggiatura – firmata da Christian Torpe, molto attivo sul versante televisivo – talmente solida da riuscire persino a sostenere uno svolta quasi da giallo famigliare alla Claude Chabrol, che il film imbocca mentre si accinge a giungere al proprio epilogo: il sospetto, da parte di Heidi, che Poul, suo padre e marito di Esther, possa aver in qualche modo convinto la consorte ad accelerare la sua fine in modo da suggellare la sua relazione occulta con l’amica di famiglia Lisbeth. Senza svelare nulla, anche perché Silent Heart resta un lungometraggio in qualche modo da vedere senza troppe informazioni preventive, possiamo anticipare che quella che poteva rivelarsi una trappola da deriva soap operistica accresce invece l’essenzialità di un film in tutto e per tutto basato sulle reazioni emotive di personaggi colti in un momento molto particolare delle loro esistenze.
Un plauso incondizionato dunque all’intero cast, dove a spiccare sono la veterana Ghita Nørby, ammirevole nel ruolo della mater familias tormentata giunta agli ultimi momenti della propria esistenza, nonché alle due figlie Paprika Steen (vista nel già menzionato Festen) e l’inedita Danica Curcic, qui nel ruolo non facile della figlia minore, dal precario equilibrio mentale. Insomma, in Silent Heart, funzionano sia il drammatico confronto generazionale tra parenti che in fondo – come insegna anche la vita vera – ignorano molto l’uno dell’altro anche dopo decenni di rapporti assai stretti, che l’excursus nel cuore di una famiglia borghese in cui affiorano inevitabilmente i rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato per una certa, nemmeno troppo latente, “freddezza” nella gestione dei rapporti personali. Pur non mettendo in scena nulla di particolarmente nuovo, la defilata regia di stampo quasi teatrale di Bille August si dedica, quasi da perfetto entomologo, all’osservazione del rituale antropologico dell’approssimarsi alla fine con una naturalezza tipicamente scandinava, senza peraltro occultare quel dolore sempre presente quando l’oggi è destinato, inevitabilmente, a sfuggire di mano e scivolare nel ricordo di chi si è amato, pure con tutte le imperfezioni di cui è composto l’essere umano.
Fosse ancora in vita e in attività Ingmar Bergman – del quale per un breve lasso di tempo August è stato erede designato dallo stesso maestro, che gli affidò la sua sceneggiatura di Con le migliori intenzioni, Palma d’Oro a Cannes nel 1992 – scriveremmo di un suo tipico capolavoro. Accontentiamoci comunque di un film che mette momentaneamente da parte nella memoria cinefila il ricordo di scult assoluti quali La casa degli spiriti (1993) e Il senso di Smilla per la neve (1997).
Daniele De Angelis