In fuga dal mondo
Opere dallo sguardo limpido come Senza lasciare traccia di Debra Granik richiedono allo spettatore uno sforzo inusuale in tempi di fruizione “passiva” come quelli che stiamo vivendo. L’immedesimazione. Con i due personaggi principali, un padre ed una figlia, ma anche con il film stesso, che non concede mai il lusso di una spiegazione ulteriore rispetto a ciò che si vede. Will (un commovente Ben Foster) e Tom (sembra non a caso un nome maschile ma è il diminutivo di Thomasin. Peraltro medesimo nome dell’attrice, l’intensa Thomasin McKenzie, in un abile gioco di specchi tra realtà e finzione) sono per l’appunto padre e figlia che vivono, per scelta, in un enorme parco vicino Portland, in Oregon. Un’esistenza del tutto alternativa rispetto ai cosiddetti canoni predicati dalla società civile. Dai loro discorsi s’intuisce la madre di Tom è morta e che Will fugge da qualcosa, a seguito di un passato come militare americano in qualche missione straniera. Probabilmente da quel passato stesso. Un giorno, dopo anni, vengono scoperti dai ranger locali – la legge non consente lo stazionamento in un luogo pubblico quale è appunto il parco – e affidati ai servizi sociali. Per loro inizia un tentativo di inserimento in un contesto sociale che sfocia però in una piccola odissea attraverso gli Stati Uniti, stante il rifiuto paterno di accettare una realtà stanziale.
Tratto dal romanzo “My Abandonment” di Peter Rock – a propria volta ispirato ad una storia realmente accaduta – Senza lasciare traccia è un lungometraggio che mette in discussione diverse istanze sulla società di oggi. E per tali motivi corre coraggiosamente il rischio dell’anacronismo. La Granik s’interroga, all’unisono con lo spettatore, se ancora sia possibile trascorrere un’esistenza “nascosta” dall’onnipresente occhio di un mondo tecnologico basato sulla risaputa dicotomia produrre/consumare. In alcuni momenti del film sembra proprio sia questo aspetto che Will cerca di evitare con tutte le sue forze. Cercando il raggiungimento di una vita utopica basata sui concetti elementari di amore e sopravvivenza, del tutto priva di sovrastrutture. Ma Senza lasciare traccia non si ferma a tale, pur importante, chiave di lettura. Ma si rivela anche prezioso racconto di formazione, in tutto e per tutto fedele alla poetica della sua autrice, la quale aveva già giustamente conquistato i consensi della critica con l’opera precedente, l’ottimo Un gelido inverno datato 2010 e a torto ricordato per lo più come trampolino di lancio per l’allora emergente talento di Jennifer Lawrence. Una sorta di coming of age illuminato dalla grazia, questo Senza lasciare traccia, che racconta del bisogno assoluto, dal punto di vista adolescenziale, di un confronto con gli altri ad ampio respiro come unica possibilità di crescita. E solo allora, dopo il fatidico momento di passaggio verso un’età adulta che per Tom comporterà il tempo di una scelta inevitabilmente traumatica, sarà eventualmente possibile donare quella parte di se stessi agli altri, così da rafforzare il concetto fondamentale di appartenenza ad una comunità.
Quintessenziali concetti espressi dalla regia della Granik attraverso una messa in scena scarna ed essenziale ai confini del documentaristico, distaccata quel tanto che basta a permettere a chi guarda la libertà assoluta di crearsi autonomamente una posizione in merito. Con un tocco poetico che si affaccia in modo spontaneo nell’economia del racconto proprio per il realismo estremo che lo permea: un altro piccolo/grande regalo dispensato da un’opera, fieramente indipendente nello spirito ma senza l’ombra di vezzi, da non lasciar passare sotto silenzio dopo la sua presentazione al Festival di Cannes 2018 nella sezione collaterale della Quinzaine des Réalisateurs.
Daniele De Angelis