Conversazione su “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”
All’ultima edizione del Ravenna Nightmare ci siamo imbattuti in Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, la cui eccezionalità sta tanto nello spessore del personaggio di cui si racconta la storia che nelle modalità attraverso le quali Marco Martinelli, grande uomo di teatro qui al suo debutto cinematografico, ha voluto portare avanti un progetto del genere. Riflessioni di natura politica. Ruolo della collettività nelle rappresentazioni teatrali. Passaggio dal linguaggio teatrale a quello filmico. Straniamento brechtiano. Peso reale delle difficoltà con cui democrazie ancora giovani come quella birmana debbono confrontarsi. Sono tanti gli argomenti emersi, nel corso della così feconda conversazione avuta con l’autore a Ravenna.
D: Innanzitutto, Marco, ci piacerebbe sapere qualcosa di più sulla genesi di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. Cosa sapevi di lei prima e quando è scattata l’intuizione che t’ha spinto a mettere in scena questa esemplare esperienza di vita?
Marco Martinelli: Si può dire che l’idea sia nata in volo. Io ed Ermanna Montanari, che facciamo teatro insieme da circa 40 anni, nei primi mesi del 2014 eravamo in viaggio verso New York, dove quel posto meraviglioso che è La MaMa Theater ci avrebbe visto recitare. Sull’aereo abbiamo notato una rivista che in copertina riportava un primo piano di Aung San Suu Kyi, volto sorridente e al contempo severo. A colpirmi subito è stata la somiglianza tra lei ed Ermanna. Quella immagine ci ha accompagnato per tutto il tempo della nostra permanenza in America, tant’è che già a New York abbiamo cominciato a fare ricerche nelle biblioteche e ad approfondire tutto ciò che la riguardava. Quel che ci ha colpito è stato in primo luogo il forte legame tra la sua storia personale e la storia del proprio popolo, assolutamente inscindibili. Nell’estate dello stesso anno abbiamo fatto il nostro primo viaggio in Oriente. Siamo andati in Birmania, stare lì ci ha permesso di calarci nell’atmosfera, di sentire quell’umidità pazzesca che ti entra nelle ossa. E di lì a qualche settimana, se non erro verso metà ottobre, ha debuttato il nostro spettacolo teatrale…
D: Spettacolo che ora è diventato anche un film…
Marco Martinelli: Sì, però non volevo che fosse il classico teatro filmato. Volevo che si percepisse ancora l’aria intorno ai corpi, quell’energia. Tutto ciò che un certo modo di filmare gli spettacoli inevitabilmente appiattisce. Si trattava pertanto di trasformare il linguaggio teatrale in qualcosa di differente.
D: Anche per quanto riguarda il cast, che nella versione cinematografica vede la partecipazione di nomi importanti come Sonia Bergamasco ed Elio De Capitani, sono stati fatti alcuni cambiamenti, giusto?
Marco Martinelli: Esatto, nello spettacolo teatrale potevamo avere 3 attori per interpretare più personaggi, un po’ come avveniva nel teatro greco, dove si usavano anche le maschere. Per il film abbiamo intrapreso un percorso diverso. Oltre alla protagonista Ermanna Montanari sono rimasti altri interpreti che erano già nello spettacolo, come Roberto Magnani, che però qui impersona una sola figura, ossia uno dei generali antagonisti di Aung San Suu Kyi alternatisi alla guida della dittatura. Si sono poi aggiunti, come ricordavi tu, grandi attori come Sonia Bergamasco ed Elio De Capitani: non avevamo mai collaborato prima, ma era come se avessimo aspettato soltanto l’occasione giusta per farlo, visto che ci conosciamo e ci stimiamo da anni.
D: Tornando alle questioni linguistiche relative all’adattamento cinematografico, come ti sei mosso a riguardo? Vedendo il tuo lavoro si ha l’impressione che lo straniamento abbia un ruolo importante…
Marco Martinelli: C’è una chiave di volta che avevo in mente sin da quando ho cominciato ad occuparmi della sceneggiatura: la presenza delle bambine. All’inizio del film di bimba ce n’è una sola, poi si moltiplicheranno fino a veder comparire in scena un coro di 40 bambine! In questa lezione di storia ci tenevo che fossero proprio delle bambine a guidarci, a fare da “maestre” agli adulti. Anche perché vi è una forte contrapposizione tra l’elemento maschile e quello femminile. La loro presenza si contrappone a quelle dei generali maschi. Ciò mi pareva particolarmente significativo trattandosi di un paese, la Birmania, dove vi è un agghiacciante modo di dire secondo il quale la donna varrebbe meno di una ranocchia…
Quanto allo straniamento è verissimo. Ad un certo punto compare un riferimento diretto a Brecht. E c’è un altro momento in cui Aung San Suu Kyi smette di dialogare con chi ha davanti per guardare dritto in macchina, così da rompere la quarta parete, rendendo lo spettatore ancora più partecipe della vicenda che sta vivendo. “De te fabula narratur”, è di te che si parla in questa favola, diceva Orazio nelle sue Satire. A me interessa proprio entrare nel vivo della relazione con te, spettatore, con la società stessa di cui fai parte.
D: Questo si rispecchia anche nella tua concezione del teatro, quindi? Per esempio sappiamo di un coinvolgimento popolare molto forte, diretto, nel tuo spettacolo dantesco a Ravenna…
Marco Martinelli: In effetti L’Inferno ha richiesto tanta fatica ed impegno, tutto poi ripagato dalla partecipazione di quasi un migliaio di cittadini ravennati. Un po’ come si usava nelle sacre rappresentazioni medioevali. Mi piace andare verso un teatro di popolo, percorso che ha riguardato anche altri spettacoli in cui ho voluto coinvolgere attori non professionisti e dilettanti: si tratta di mettere in relazione il sapere dell’arte e il sapere della città.
Non a caso nel cinema mi sento molto legato a Fellini e a Pasolini. Più in particolare Pasolini con Accattone ha posto l’accento su facce, corpi, dotati di un potere espressivo che l’attore appena uscito dalla Silvio D’Amico non può avere.
D: Ecco, hai fatto i primi nomi di autori alla cui poetica ti senti vicino. Cos’altro puoi dire di loro? E ci sono registi stranieri che ritieni altrettanto rilevanti, per il tuo percorso?
Marco Martinelli: Beh, come dicevo poc’anzi Pasolini e Fellini sono per me come i Dioscuri, Castore e Polluce: “padri” che ho accettato sin dall’inizio. Per quanto riguarda Federico Fellini, vedi 8½ , ad affascinarmi è quel continuo passaggio dal reale al fantastico, con il reale che appare al tempo stesso normale e di fantasia. Tra gli autori stranieri grande importanza hanno per me Derek Jarman e Sergej Paradžanov, due splendidi eretici. E poi c’è Aki Kaurismäki: colpisce di lui la disarmante capacità di raccontare il Bene. In modo non ipocrita, non retorico, come fanno invece i pubblicitari e i politici. Dai suoi film emerge che l’umanità può essere qualcosa di diverso da violenze e massacri.
D: Vorrei chiudere con una domanda forse un po’ “scomoda”, ma che sicuramente ti aspetti: cosa pensi di Aung San Suu Kyi oggi, delle critiche e delle accuse internazionali che le sono arrivate per la spinosa questione della minoranza oppressa, i Rohingya?
Marco Martinelli: In effetti immaginavo una domanda del genere. Ho letto tutto quello che potevo sulla questione, rendendomi conto che qui in Occidente risulta al 90% accusatorio, nei suoi confronti. Però, oltre al punto di vista dei giornalisti che osservano le cose da lontano, ne ho fortunatamente anche altri: ad esempio sono in buoni rapporti con l’ex senatrice Albertina Soliani, il cui ruolo nell’Associazione per l’Amicizia Italia–Birmania è fonte di contatti continui e diretti tanto con una realtà complicata quale Myanmar, che con la stessa Aung San Suu Kyi. Ebbene, bisogna prendere innanzitutto coscienza del fatto che, quando si parla della Birmania, non si parla di una democrazia completamente realizzata. Nonostante il ruolo riconosciuto oggi ad Aung San Suu Kyi. Credo poi che da noi siano pochi a sapere come stanno realmente le cose in Myanmar, coi militari che hanno preteso per legge di avere una “dote” corrispondente al 25% dei seggi parlamentari, a prescindere dai risultati elettorali. Non solo! A loro vengono garantiti di base tre ministeri chiave, Frontiere, Interni e Difesa. Insomma, la partita appare truccata in partenza, un po’ come se una squadra di calco scendesse in campo trovandosi già in vantaggio di due o tre reti sugli avversari…
Ed è in un quadro come questo, sebbene gran parte del popolo birmano voti per lei, che si trova ad operare Aung San Suu Kyi. Continuano poi ad esserci voci di possibili attentati. E potendo contare su un margine di manovra tanto ristretto, a livello politico, dovrebbe essere facilmente comprensibile che per lei sarebbe in fondo più comodo far sentire la propria voce da fuori, dall’estero, rinunciando così a quel ruolo all’interno del proprio paese che implica responsabilità e difficili compromessi. Per cui nella mia testa ha preso forma questo paradosso: Aung San Suu Kyi sta continuando a sacrificarsi in Birmania quasi come nei giorni in cui era agli arresti, pur di far fare qualche passo in avanti a quella democrazia ancora fragile e insicura.
Stefano Coccia