La duplicità del male
C’è un’immagine di Riccardo va all’inferno, quella iniziale, che, ancor più a conti fatti, sembra mettere i puntini sulle i: la Regina Madre (una Sonia Bergamasco completamente calata nella maschera) distesa sul letto mangia con avidità. Tenete ben a mente quel “quadro” perché tornerà. Roberta Torre non è un’autrice che vuole percorrere strade facili e neanche questa volta si smentisce. Nella stagione 2012-2013 si era approcciata al testo shakespeariano del “Riccardo III” dando vita a “INSANAmente Riccardo III” in cui ribaltava le prospettive. Alcuni elementi presenti nello spettacolo, a partire dai binomi anormalità-normalità (la Regina dice, ad esempio, al medico: «lo voglio normale») e salute-pazzia, vengono ancor più esplorati nel lungometraggio mediante un lavoro di scavo e contaminazione sul testo.
«La vita può essere compresa solo se la si guarda indietro, poi va vissuta in avanti», è una delle prime battute che ascoltiamo appartenente al filosofo Søren Aabye Kierkegaard. In quest’ottica, Riccardo (un Massimo Ranieri generoso nell’interpretazione anche fisica) viene dimesso dal manicomio per tornare tecnicamente alla vita relazionandosi con gli altri. In realtà gli unici con cui vuole avere a che fare sono gli aiutanti che l’hanno atteso fedelmente a lungo nelle segrete del castello. Proprio come la pièce di anni fa strabordava di quadri scenici dalla grande resa visiva, così colpisce la cura che la regista milanese e il suo staff hanno mostrato su questo piano. Spiccano i costumi di Massimo Cantini Parrini (di recente aveva curato Il racconto dei racconti di Matteo Garrone), dal mantello pesante che sin dalla prima uscita indossa il futuro re («quasi a significare la stessa pesantezza della vita o della non vita – a seconda di come la si voglia vedere», come lo stesso attore ha evidenziato) a quelli che caratterizzano le figure femminili (resta impresso, in particolare, l’abito da lutto della regina con piume di pavone annesse). Man mano che la narrazione si dipana, ancor più chi conosce il testo di partenza, nota quale lavoro profondo sia stato compiuto sulla “riscrittura” (co-sceneggiato con Valerio Bariletti) inserendo anche citazioni teatrali (non solo Shakespeare, ma c’è spazio anche per Brecht), psichiatriche – come quelle da Eugenio Borgna – e religiose (vedi la parabola del figliol prodigo) – e sulle musiche e canzoni originali realizzate da Mauro Pagani (il primo brano parte con «è finito l’inverno del nostro scontento» ed un altro è stato costruito sul celebre verso «il mio regno per un cavallo»). La Torre è riuscita a trovare il giusto equilibrio con la tanto desiderata parte musicale, senza creare uno scollamento narrativo, anzi le canzoni esaltano soprattutto la doppiezza del male riferita a Riccardo (ma quest’espressione ben si addice anche ad altri e la stessa conclusione lo svela), facendo emergere in quei minuti la parte più “scanzonata” e positiva del personaggio (legata più a un desiderio d’amore che probabilmente non ammette neanche a se stesso).
Dopo il bianco manicomiale, ci si ritrova catapultati in «un Fantastico Regno alle porte di una città di nome Roma, dove vive in un decadente Castello la Nobile Famiglia Mancini, stirpe di alto lignaggio che gestisce un florido traffico di droga e di malaffare. Qui, Riccardo Mancini è da sempre in lotta con i fratelli per la supremazia e il comando della famiglia, dominata dagli uomini ma retta nell’ombra dalla potente Regina Madre, grande tessitrice di equilibri perversi: un tragico e oscuro incidente l’ha reso zoppo e storpio fin dalla tenera età, minando fortemente la sua salute mentale e obbligandolo a trascorrere anni in un ospedale psichiatrico. Tornato a casa, apparentemente guarito, Riccardo inizia a tramare nell’ombra» (dalla sinossi). Riccardo va all’inferno percorre il filo sottile tra realtà e finzione, giocando con la funzione stessa dell’attore, c’è a tratti una linea più intima che si perde nei meandri delle ombre e della raffigurazione barocca; ma nel complesso si rivela uno sguardo molto interessante, senza dubbio ambizioso, teso pure a voler collocare la donna in una specifica posizione – di sicuro non passiva. «Non c’è conoscenza senza sofferenza». Viene citato ad un tratto questo pensiero di Simone Weill, che ci richiama alla mente Amleto (a cui ci si riferisce anche sottilmente) – con quest’ultimo che fu accusato di pazzia. Pian piano le maschere cadono, il resto è silenzio.
Nota di merito va fatta sul cast, non solo per la bravura del cast principale e non, ma anche per le scelte effettuate, rendendo in qualche modo anch’esso ibrido, attingendo molto all’ambito teatrale e della performance. Tenendo conto di questa peculiarità proviamo a citarli tutti: Silvia Gallerano (Betta), Ivan Franek (Romolo), Silvia Calderoni (Gemella), Teodoro Giambanco (Gemello), Michelangelo Dalisi (Giò detto Ginger), Antonella Lo Coco (Lady Anna), Matilde Diana (Bettina), Gianluca Gori (il Dottore), Mirko Frezza (zio Aurelio) e Cristiano Perrone (zio Angelo) e i Freak costituiti da Melania Giglio, Anita Pititto, Ro’ Rocchi, Stella Pecollo e Alessandro Pezzali.
«Non c’è conoscenza senza sofferenza».
Dopo essere stato presentato alla 35° edizione del Torino Film Festival, il film sarà nelle sale dal 30 novembre distribuito da Medusa.
Maria Lucia Tangorra