L’oro è loro
La “ricetta Besson”, almeno per ciò che riguarda le produzioni targate EuropaCorp – la casa di produzione da lui fondata – è sempre la medesima. Azione e/o violenza in quantità massicce, un dosaggio variabile d’ironia a mitigare il tutto come ulteriore strizzatina d’occhio al pubblico, sceneggiature vergate di suo pugno, in genere abbastanza pretestuose, il cui obiettivo è quello di realizzare un prodotto in grado di essere apprezzato in patria (Francia) come al di là dell’oceano. Nell’ambito della classica sindrome del “tu vuoi fare l’americano”, da sempre macchia indelebile su curriculum bessoniano, la regia rappresenta davvero l’ultima ruota del carro. Qualsiasi anonimo shooter, transalpino o meno, è utile allo scopo. Non sorprende allora che ogni film realizzato abbia un sapore riconoscibile di déjà vu, a prescindere dal successo registrato al botteghino internazionale.
Non fa eccezione nemmeno Renegades – Commando d’assalto, altra astuta operazione che ricalca passo dopo passo schemi ampiamente consolidati. Al centro della narrazione c’è il famigerato oro nazista – sorta di McGuffin ampiamente sfruttato al cinema, vedere il recente Black Sea (2014) di Kevin MacDonald – trafugato alla Francia, ridimensionato in tonnellate di lingotti e finito, seguendo un giro a dir poco complesso, in Bosnia, dove verrà scoperto durante il tragico conflitto etnico ivi accaduto nella prima metà degli anni novanta. Di guerra in guerra, dopo il prologo ambientato nel secondo conflitto mondiale che ritornerà in flashback nella narrazione, un gruppo di Navy Seals in missione di soccorso in quei luoghi si cimenterà dunque nella difficoltosa operazione di recupero.
Chiunque, dopo questi brevi cenni di trama, fosse tentato di dare una qualsiasi chiave di lettura storica alla narrazione, cambi subito il grado di aspettativa. Nessuna equiparazione sottesa tra nazisti e serbi dei rispettivi tempi; solo un lungometraggio che richiama fiaccamente alla memoria opere divenute classiche tipo Quella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich, peraltro con un approfondimento dei personaggi a dir poco differente. Il peccato originale di Renegades non risiede tanto nel riciclaggio sistematico di fatti e situazioni, quanto nella totale mancanza di pathos generata dalla monodimensionalità di quegli uomini (e donne. C’è anche una dolce fanciulla locale, in ossequio al politically correct…) alle cui vicende ci si dovrebbe appassionare. Il tutto si svolge infatti in un clima narrativo così disincantato, alla Tarantino dei poveri senza ovviamente un briciolo della rilettura cinefila e teorica dell’autore di Pulp Fiction, da far scattare più spesso lo sbadiglio che la meraviglia in virtù di sequenze spettacolari comunque di discreta realizzazione. Non a caso Besson ha chiamato nella circostanza in cabina di regia uno statunitense a denominazione d’origine controllata come Steven Quale, coordinatore di effetti speciali che vanta nel curriculum cose tipo Final Destination 5 (2011) e Into the Storm (2014). Un banale esecutore, insomma, del tutto incapace di fornire un’anima ai propri lavori. E neppure tragga in inganno la presenza degli unici due attori di un certo rilievo nel cast: J.K. Simmons ed Ewen Bremner – ormai tristemente abbonato ai ruoli di strafatto – risultano alla fine solo dei comprimari, anche se il primo gode del suo momento di gloria in un epilogo tanto inverosimile da risultare quasi godibile.
Detto questo, detto tutto, a proposito di un film del quale non si sentiva affatto la necessità.
Daniele De Angelis