Quando il rock‘n’roll era un crimine
Nelle cinematografie dell’Europa Orientale (al pari di quelle occidentali sporadicamente incuriosite dai fantasmi della Guerra Fredda) si è sviluppato, in tempi più o meno recenti, un intero filone di film tesi a riesumare le più disparate forme di oppressione, controllo, censura, esercitate un tempo in paesi organizzati secondo i dettami del “socialismo reale”. Sia il cinema di finzione che quello documentario ci hanno dato dentro, in tal senso. E a proposito di documentari, si pensi al fatiscente mondo sovietico ritratto in Come i Beatles sconvolsero il Cremlino, brillante lavoro diretto per la BBC dal pluripremiato regista britannico Leslie Woodhead, o in Soviet Hippies della promettente regista estone Terje Toomistu; in entrambi i casi gli autori si sono divertiti a mettere alla berlina i meccanismi repressivi più biechi, grotteschi, liberticidi, posti in atto dalla dirigenza comunista per arginare l’infiltrazione di modelli di vita occidentali nella società russa dell’epoca. Laddove la cultura hippy e i Beatles potevano essere parimenti demonizzati, ricorrendo poi alle “cure” del caso: proibizione dei dischi, censura applicata alla radio, perquisizioni, arresti, ragazzi dai capelli lunghi malmenati e costretti con la forza a tagliarseli. Un ricettario di quotidiana arroganza e sopraffazione, che non a caso pretendeva di raffigurare il rock‘n’roll quale subdolo, astuto e perverso nemico del presunto “paradiso dei lavoratori”.
Ebbene, in Radiogram di Rouzie Hassanova è proprio uno dei più fedeli stati satellite incorporati nel Patto di Varsavia, la democrazia popolare bulgara, l’epicentro di analoghe prepotenze e intimidazioni. Il lungometraggio, presentato in concorso al SoundScreen Film Festival 2018, parte proprio da una efficace ricostruzione d’ambiente relativa a quegli anni. Siamo nel 1971. Anche nella Bulgaria comunista qualsiasi espressione religiosa o interessamento nei confronti della musica anglosassone appare come una minaccia. Tant’è che vediamo un uomo lasciare il proprio paesello e farsi 100 chilometri di nascosto, pur di raggiungere la città più vicina e comprare una nuova radio al figlioletto, contagiato egli stesso dalla febbre del rock‘n roll, subito dopo che il precedente apparecchio gli era stato sprezzantemente scagliato a terra da un ligio, inflessibile, oltremodo collerico burocrate di partito.
Pur cedendo narrativamente a qualche schematismo, che lo rende a tratti un po’ scontato, Radiogram ha il merito di sfruttare l’appeal di situazioni e personaggi per accostarsi con forza al tema. Notevole è ad esempio il fatto che i protagonisti siano due volte emarginati, nell’ipocrita e autoritaria società comunista: non solo ascoltano la musica proibita, ma appartengono anche a quella minoranza di origine turca la cui cultura e la cui fede islamica erano parimenti oggetto di rappresaglie, nella così chiusa nazione balcanica. Abile nell’innestare tematiche robuste e dialoghi di notevole impatto in un plot spigliato, scorrevole, Rouzie Hassanova ha buon gioco anche nel dare vigore alla denuncia, mescolando ad arte il racconto di formazione a sfondo socio-politico con altre tracce di genere. Su tutte il road movie, visto anche il periglioso viaggio di uno dei protagonisti tra campagne, boschi e apparizioni improvvise di uomini in divisa, determinati a controllare minuziosamente (per poi reprimere) chiunque non si faccia trovare al proprio posto.
Stefano Coccia