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The Song of Scorpions

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VOTO: 8

Il canto della vendetta

Che cos’è la vendetta? Un semplice piatto che va servito freddo? Non solo. La vendetta è quella cosa che cresce pian piano dentro di te, fino a esplodere, senza pietà alcuna. La vendetta è una canzone che continuerà a risuonare in eterno per il deserto. La vendetta è uno scorpione rinchiuso in una scatola, che ben presto diventerà un assassino, avvelenando chiunque osi sfiorarlo. C’è chi sostiene che la vendetta al femminile sia la più efferata che possa esserci e, a tal proposito, anche la settima arte pare abbia molto da dire in merito, dal momento che, da numerosi decenni a questa parte, spesso e volentieri si è deciso di raccontare per immagini storie di spietate (ma quasi sempre con un forte senso di giustizia) vendicatrici: da La Sposa in nero di François Truffaut (1968) a Kill Bill di Quentin Tarantino (2003), da La Voltapagine di Denis Dercourt (2006), fino a Lady Vendetta di Park Chan-wook (2005). E questi sono soltanto alcuni titoli. Nonostante il passare degli anni e nonostante i numerosi prodotti sull’argomento, infatti, pare che la figura della vendicatrice sia sempre molto carismatica. E se in questo preciso momento storico, nel 2018, abbiamo da poco visto l’esordio sul grande schermo della francese Coralie Fargeat con il suo Revenge, un’altra interessante sorpresa ci è giunta direttamente dall’India. Stiamo parlando di The Song of the Scorpions, per la regia di Anup Singh, presentato in anteprima italiana al SoundScreen Film Festival 2018, dove si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria.
Il regista, dunque, nel mettere in scena una storia di vendetta tutta al femminile, ci ha illustrato, allo stesso tempo, un’importante tradizione hindi, che vede tramandato di generazione in generazione il dono speciale, in alcune donne, di riuscire a guarire la gente punta da scorpioni mediante il proprio canto. Questo è, così, anche il dono che ha ereditato dalla nonna la giovane e bella Nooran (Golshifteh Farahani), di cui si innamora perdutamente un uomo del suo villaggio. La ragazza, tuttavia, al fine di preservare il suo dono, deve restar pura e non può sposarsi. La sua vita, però, cambierà brutalmente, nel momento in cui verrà aggredita da un ragazzo del posto e, in seguito all’accaduto, vedrà sparire sua nonna misteriosamente.
Con i numerosissimi campi lunghi – in cui vediamo un deserto che sembra non finire mai, all’interno del quale ci si sente spesso spaesati e senza via di fuga – e con rari, ma incredibilmente intensi primi piani della giovane protagonista, Anup Singh gioca sapientemente con musica e tradizione, dando vita a qualcosa di nuovo e unico nel suo genere, dai tempi volutamente dilatati e con un riuscito crescendo di tensione, in grado di trasmettere allo spettatore forti scosse emotive. Sono, dapprima, la rabbia e l’impotenza a impossessarsi della protagonista. Ben presto, però, viene lasciato il posto alla speranza, poi di nuovo alla rabbia, alla determinazione e, infine, a una tanto agognata liberazione. Sotto molti aspetti il personaggio di Nooran sembrerebbe quasi ricordarci una moderna Medea, ma anche un’eroina shakespeariana, tanto attuale, ma, allo stesso tempo, così universale. Ed è proprio la complessa scrittura dei personaggi – oltre alla sottilissima vendetta messa in scena – il vero cavallo di battaglia di un lavoro come The Song of the Scorpions. Questo prezioso lavoro di Anup Singh si classifica, dunque, come un vero e proprio gioiello della cinematografia orientale. Una delle più interessanti sorprese del SoundScreen Film Festival 2018.

Marina Pavido

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