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Purdah

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VOTO: 8

L’occasione di una vita

Cinematograficamente parlando, le parabole sportive sono sempre state un grandissimo catalizzatore di attenzione, coinvolgimento ed empatia. Se poi queste vanno a mescolare i cromosomi con quelli di una storia chiama in causa tematiche a carattere sociale, alcune delle quali di forte attualità, a quel punto il peso specifico, l’importanza e la capacità di compenetrazione dell’opera aumenta in maniera esponenziale. Ed è quanto accaduto a Purdah, senza ombra di dubbio tra le proposte più interessanti e degne di nota tra quelle offerte dalla line-up della 18esima edizione del River to River Florence Indian Film Festival, laddove la pellicola di Jeremy Guy è stata presentata nella sezione competitiva dedicata al cinema del reale.

Nel documentario firmato dal cineasta statunitense, approdato in anteprima italiana sugli schermi della kermesse toscana dopo un discreto percorso nel circuito festivaliero internazionale, si narra la la storia di Kaikasha Mirza, una giovane donna indiana che rinuncia al burka per inseguire il suo sogno di giocare nella squadra di cricket femminile di Mumbai. Allo stesso tempo, le sue sorelle cercano di realizzare i propri sogni nonostante gli ostacoli inaspettati che incontrano, in primo luogo a causa delle rigide condizioni delle donne in India.

In Purdah, dunque, la componente sportiva si mescola senza soluzione di continuità con quella a carattere sociale, dando forma e sostanza ad un’opera che a conti fatti è destinata a lasciare un segno nel cuore e nella mente dello spettatore di turno. E lo fa senza mai ricattarlo o mentirgli deliberatamente con manovre illusorie, sottolineature enfatiche e tantomeno spettacolarizzando il racconto e le diverse fasi che vanno a comporre la timeline. In tal senso, Guy lavora nella direzione opposta, vale a dire quella della sincera, veritiera e rispettosa restituzione della realtà, che in nessun modo viene alterata, manipolata, plasmata o ancora peggio indirizzata. L’autore, alla pari del modus operandi di Maria Grazia Silvestri nel suo docu-film Islam/Women Emancipation Via Sport, si mette in posizione d’ascolto raccogliendo strada facendo testimonianze, a cominciare proprio da quella della giovane protagonista Kaikasha che la macchina da presa del regista americano interroga e pedina tanto nel quotidiano quanto sul campo da gioco. È lei il baricentro e il motore portante per raccontare un esempio andato a buon fine di emancipazione femminile nella vita attraverso lo sport, che nello specifico di Purdah è il cricket, che dopo il cibo e Bollywood, è uno dei geni imprescindibili di una nazione come l’India. Quest’ultima è una disciplina con una diffusione totale giocata pressoché ovunque, per strada, nei parchi pubblici o in impianti appositi, che lo fa un banco di prova importantissimo e di grande risonanza mediatica e popolare. E per Guy questo ha rappresentato un’occasione irripetibile per portare sullo schermo un’opera che parte da una domanda apparentemente semplice per poi allargare gli orizzonti ad una serie di riflessioni e ulteriori interrogativi. Quella domanda è: si può giocare a cricket indossando l’hijab? E per fornire delle risposte l’autore spenderà immagini e parole seguendo le vicende di una famiglia musulmana di Mumbai, dove le tre figlie lottano contro povertà, pressioni sociali e problemi familiari per inseguire le proprie aspirazioni.

Viene da sé che ci troveremo a fare i conti con un documentario che come pochi altri, senza facili didascalismi o escamotage a buon mercato, saprà narrare ed emozionare dal primo all’ultimo fotogramma utile, parlando di sogni spezzati e di traguardi raggiunti, catapultando il fruitore dal Paradiso all’Inferno nel giro di una lancetta.

Francesco Del Grosso

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