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Peripheral

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VOTO: 5.5

First draft

Un antico detto popolare vuole l’assassino tornare sempre (o quasi) sul luogo del delitto. È il caso di Paul Hyett che di crimini efferati per sua e nostra fortuna non ne ha mai commessi, ma come regista sta dimostrando una tendenza al seriale che lo ha portato nuovamente al Trieste Science + Fiction Festival, laddove nel 2012 aveva fatto parte della giuria e nel 2015 aveva presentato la sua opera seconda Howl, vincitrice nell’occasione del Premio Nocturno Nuove Visioni. Nel frattempo di anni ne sono trascorsi tre, con il cineasta britannico che in parallelo al lavoro dietro la macchina da presa ha portato avanti la sua principale attività, ossia quella di makeup e prosthetic effects designer per il cinema e la televisione. Ora lo ritroviamo alla 18esima edizione della kermesse friulana dove ha accompagnato in concorso l’anteprima mondiale del suo nuovo film Peripheral.
La periferica del titolo è quella con la quale entrerà suo malgrado in contatto la protagonista di turno, qui interpretata da Hannah Arterton che si cala corpo e voce nei panni di Bobbi Johnson, una giovane celebrità letteraria alle prese col suo secondo romanzo. Convinta dal suo editore a usare un nuovo, sofisticato software di editing, si troverà a dover affrontare, oltre a uno squilibrato stalker e un ex-fidanzato drogato, un’intelligenza artificiale determinata a scrivere il libro al suo posto. Mentre la macchina manipola il suo lavoro per adattarlo ai propri malvagi fini, Bobbi comincia a capire che la stanno controllando in una maniera molto più inquietante di quanto pensasse. Ormai troppo coinvolta per tirarsi indietro, Bobbi dovrà continuare a scrivere, rispettando le scadenze e combattendo al contempo le sue dipendenze e allucinazioni, ma senza diventare l’ingranaggio di una macchina mostruosa.
Per la pellicola di Hyett, lo sceneggiatore e fumettista Dan Schaffer mette insieme alcuni dei topos che hanno animato in tempi passati e più recenti molti fanta-horror a tutte le latitudini. Ciò ha determinato e determina anche nel caso di Peripheral una fisiologica carenza di originalità che, tuttavia, vista la frequenza con la quale si manifesta nelle produzioni analoghe non dovrebbe – o almeno non lo è per noi – essere considerato ormai come un vero e proprio tallone d’Achille, semmai un punto in meno in fase di giudizio e parte integrante di un modus operandi dal quale è sempre più complicato con gli anni allontanarsi. In tal senso, la pellicola del regista britannico non se ne distacca, al contrario si mette in scia lasciandosi trasportare da una corrente fatta di echi dal passato, modelli predefiniti, citazioni più o meno dichiarate e variazioni contemporanee hi-tech al tema.
In Peripheral le analogie e le similitudini con film di ieri e di oggi non si contano sulle dita delle mani, per cui andare a scomodare questo o quell’altro progetto audiovisivo o matrice letteraria è un esercizio di memoria inutile e fine a se stesso. Nella sua quarta fatica orrorifica, Hyett si trova a maneggiare dinamiche narrative più o meno già risolte ed esplorate, che ne abbassano le aspettative e di riflesso le pretese dello spettatore. Quest’ultimo si trova alle prese con l’ennesimo scrittore in balia dell’archetipo incubo della pagina bianca da riempire a tutti i costi, ma anche con l’altrettanto “gioco mortale” che vede l’essere umano vittima della macchina tecnologicamente avanzata, in un faccia a faccia che tante storie per il grande schermo ha monopolizzato e che si spinge sino all’estremo di un rapporto carnale.
La prevedibilità anche qui è il risultato della catena di causa ed effetto drammaturgica, data dal ricorso a dinamiche e sviluppi di un racconto che ha il carattere del già visto. Ma come abbiamo detto precedentemente, proviamo a mettere da parte tale mancanza per provare a riempirla con altro. Quel qualcosa è la capacità del regista di riempire i fotogrammi della schermo con momenti di media tensione e con effetti visivi di buona fattura che richiamano in causa il body-horror old style e il cyber-thriller di nuova generazione, catapultando il personaggio principale in un “inferno” terreno dove la realtà si mescola senza soluzione di continuità con i pixel e con una dimensione altra a metà tra l’incubo e il delirio psicòtropo.
Detto questo, ciò che si materializza sullo schermo è un tour stupefacente nel senso dopante del termine che si consuma in una tipografia circoscritta claustrale (rarissime sono le sortite all’esterno dell’appartamento), alla quale si aggiunge, tanto per gettare ulteriore carne sul fuoco, la macchinazione planetaria. Il che ha generato una maionese impazzita di stratificazioni tematiche (dalla dipendenza alle tecnologie alla nostalgia per la pre-digitalizzazione, passando per una riflessione sul mestiere dello scrittore e sull’odierna cancellazione dell’autorialità a favore dell’omologazione e della commerciabilità dell’atto creativo, qualsiasi esso sia) che crea a sua volta una saturazione nel racconto, con i singoli elementi chiamati in causa che puntano il dito, ma fanno però fatica a coesistere sfuggendo ben presto dalle mani di colui che ha provato a metterle insieme.

Francesco Del Grosso

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