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Parliamo delle mie donne

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VOTO: 7

L’uomo che continua(va) ad amare le donne

Claude Lelouch sempre lancia in resta, ad affrontare a petto nudo e con massimo sprezzo del pericolo una critica pronta a sottolineare nei suoi film forzature narrative e cadute di stile nel racconto di vicende sentimentali, famigliari, affetti ripresi ed interrotti in classica ambientazione alto-borghese. L’unica che lui conosce bene. Cinema “di papà”, come affermavano in passato spregiativamente i giovani turchi che diedero poi vita alla Nouvelle Vague? Forse. E mai, eventualmente, definizione appropriata come nel caso di Parliamo delle mie donne, terzultima fatica del popolare autore transalpino girata nel 2014. Dove la trama racconta di un famoso fotografo, Jacques Kaminsky (il carismatico Johnny Hallyday), dalla vita sentimentale tanto densa quanto inevitabilmente sregolata e del rapporto che la sua attuale compagna Nathalie e le cinque/sei (chi vedrà il film capirà la dovuta distinzione) figlie, tutte rigorosamente femmine, avute nel tempo da una moglie spesso tradita e da tempo abbandonata. Il tutto incastonato in uno spettacoloso ambiente rupestre, scelto come buen retiro dall’anziano artista.
A chi storcerà con qualche ragione il naso di fronte ad un flusso narrativo come spesso accade strettamente apparentato ad una soap opera in confezione extra lusso, Lelouch risponde con l’unica arma a propria disposizione: quella della fascinazione seduttiva di un cinema di genere dichiaratamente “femminile”, messo in atto da parte di un regista che non ha mai perso un grammo, nel corso della sua ormai lunghissima carriera, della propria arte affabulatoria. Una sorta di flusso inarrestabile che solamente lui riesce a trasformare in emozioni certamente epidermiche e tuttavia esposte con così tanta convinzione da creare nello spettatore disponibile a “stare al gioco” un processo simile a quello della fotosintesi clorofilliana per le piante. Assorbire cioè ogni stilla di umore od emozione fino a condividerla empaticamente e farla propria. Se le coordinate poetiche di un Arnaud Desplechin, tanto per rimanere in terra francese, si muovono secondo i ritmi incontrollabili del Tempo e della Memoria, quelle di Lelouch rimangono ben ancorate al presente, al mostrare senza soverchi filtri artistici metaforiche ferite non rimarginabili ma al contempo un rinnovarsi di prospettive esistenziali fin quando si è in possesso di un alito di vita. La sovrapposizione tra la figura di Jacques Kaminsky – drammatici sviluppi diegetici a parte – e quella dello stesso Lelouch è evidente: tutto è ed è stato vissuto a quei ritmi vorticosi tipici di chi è affetto dalla cosiddetta bulimia esistenziale. In Parliamo delle mie donne (il titolo originale Salaud, on t’aime è già una dichiarazione d’intenti, nonché una sorta di dichiarazione preventiva) Lelouch mette di fronte se stesso e gli ammiratori del suo cinema al cospetto di un’inconfutabile superiorità femminile, sia numerica – a parte il suo amico medico, il protagonista è affettivamente circondato da donne – che intellettuale. Come a suggerire come non possa che essere l’uomo il piccolo satellite a gravitare nell’orbita del maestoso pianeta costituito da un sesso che da tempo non ha più senso alcuno definire debole.
Momenti di quasi compiuta felicità, rancori mai sopiti, rabbie urlate con vigore non risultano mai gratuiti orpelli “mucciniani” ma si rendono parte attiva di un preciso contesto cinematografico che non prevede, nel suo dna, alcun tipo di senso della misura, a partire da simbolismi – quello dell’aquila intesa come spirito libero al pari del personaggio principale, ad esempio – certamente sin troppo ricorrenti e sovraesposti nel corso del film. Ma Lelouch, l’anima femminile di Lelouch, sa ancora affascinare il suo pubblico fino a sedurlo. Del resto, a quasi ottant’anni di età ed oltre quaranta film alle spalle, qualcuno ha il coraggio di chiedergli un’improponibile conversione verso un cinema più rarefatto? Noi no di sicuro. A maggior ragione quando, come nella circostanza, abbiamo assistito, tra molte altre cose, ad una sfilata di talento e bellezze affatto sfiorite provenienti da altri decenni, grazie alle performance di Irène Jacob, Sandrine Bonnaire e Valérie Kaprisky, peraltro circondate da un resto del cast perfettamente all’altezza.
Anche l’occhio del cinefilo più o meno nostalgico, un po’ egoisticamente, pretende la sua parte. Oltre alle palpitazioni sentimentali di rito. E tutto questo l’implacabile Claude Lelouch lo sa meglio di tutti. L’ennesima summa di una poetica senza tempo è dunque servita in tavola. E il pasto è, come sempre, (sovra)abbondante.

Daniele De Angelis

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